Fino al 10 marzo scorso, la Kunsthalle Düsseldorf ha riproposto la bella retrospettiva sull’opera di Yin Xiuzhen1 già ospitata l’anno scorso al Groninger Museum di Groningen, nei Paesi Bassi.
Abilissima cucitrice – come la madre e le sorelle, che l’aiutano nel suo lavoro – Yin crea fantasiose installazioni usando il tessuto che ricava da indumenti smessi. Da quest’idea ha tratto una gran varietà di lavori, tra cui si possono tuttavia individuare tre serie che formano i diversi momenti di un unico discorso e che ci pare chiariscano bene il perché della sua opera.
Le Portable Cities sono forse il prodotto più curioso del lavoro di cucito di Yin: città di stoffa in miniatura sistemate nel vano di una valigia. Spesso in viaggio al seguito delle sue mostre, nella città che la ospita Yin raccoglie pile di vestiti usati dagli abitanti del posto, che usa poi per imbastire miniature dei suoi edifici, monumenti e paesaggi. Sceglie le stoffe in base alla trama e al colore – una striscia di tessuto marrone a coste, ad esempio, potrà tradurre la pietra d’una chiesa medievale; un collant verde, la superficie d’uno specchio d’acqua – e adopera zip, fibbie, bottoni, stringhe ed etichette per imitare porte, finestre, cavi e insegne pubblicitarie. Infine sistema il patchwork dentro un trolley e sotto vi installa un altoparlante che diffonde una registrazione delle voci e dei rumori della metropoli, da lei stessa presa per le strade. Le Portable Cities non sono copie esatte delle città cui si rifanno, ma piuttosto delle impressioni, dei ritratti soggettivi di ciò che Yin ha colto della storia e del carattere del luogo che l’ha ospitata. Impressioni che sono più retiniche e atmosferiche – più turistiche – per le metropoli europee, americane e australiane – con l’unica eccezione di New York, del 2003, per la quale, in memoria dell’11 settembre, ha cucito i due fantasmi delle Twin Towers usando un velo di organza grigio semitrasparente – mentre si fanno decisamente più politiche e allegoriche in quelle delle città asiatiche e soprattutto cinesi. Così di Pechino, dov’è nata e vive, ha riprodotto solo la torre della China Central Television – l’emittente statale controllata dal governo – e una cerchia di casupole attorno alla voragine di un cantiere; mentre Shenzhen, simbolo della folle corsa all’Occidente della Cina moderna, è un caotico ammasso di gru e grattacieli.
Ecco che nelle Portable Cities vengono così a raccogliersi tre strati di memoria: personale, quella di Yin, del suo viaggio, delle ore dedicate al cucito; collettiva, quella degli abitanti della città, trattenuta simbolicamente nei loro vestiti dismessi; storica, quella della città stessa, che si specchia nella sua architettura, caratteristica che assume un valore particolare nelle metropoli cinesi, teatro negli ultimi decenni di una velocissima metamorfosi estetica, con conseguenze drastiche sull’ambiente e sullo stile di vita dei cittadini – mutuando un’espressione dalla psicanalisi junghiana, Yin ne parla invece in termini di “inconscio collettivo”, a indicare che nelle sue opere vengono a concentrarsi ricordi, esperienze e valori comuni a tutti gli uomini del nostro tempo, anche se appartenenti a società e culture diverse.
Ora, quella formula la ritroviamo nel titolo di un lavoro del 2007 nella personale variante Collective Subconscious – che non ha riscontro negli scritti di Jung – prima di una serie di installazioni nelle quali il discorso sull’impatto sociale e psicologico dello sviluppo urbano è declinato in una dimensione partecipativa. Sono bizzarri ibridi meccanici-sartoriali: automobili, pulmini, un piccolo aereo di linea, un trattore – i simboli del progresso – che Yin seziona e dentro i quali allestisce ambienti confortevoli dove i visitatori possono fermarsi a chiacchierare, condividendo le proprie esperienze di vita e i sogni per il futuro – da cui la sostituzione inconscio/subconscio. Ancora una volta lo spunto sono storie tutte cinesi. Per Collective Subconscious ha preso un minivan bianco – di quelli che si usavano illegalmente come taxi condivisi nella Cina post Rivoluzione Culturale, prima della diffusione dell’auto privata – l’ha tagliato in due e l’ha allungato tramite una struttura a fisarmonica ricoperta di vestiti anch’essi bianchi, dentro cui ha sistemato degli sgabelli di legno, in un’allegoria del conformismo e della condivisione forzata di quei tempi. Ecco però lì accanto un secondo pulmino, blu e con un tunnel multicolore, a simboleggiare la diversità e a trasformare quella condivisione imposta in una proposta di condivisione. In modo simile è costruita Flying Machine (2008), un piccolo aereo dalla fusoliera di stoffa cui sono cuciti, da un lato e dall’altro, una berlina e un trattore, in un’allegoria dei movimenti demografici nella Cina degli anni Novanta: dalla campagna, alla città, al mondo – ma lo stesso vale anche per l’America e l’Europa del dopoguerra e, oggi, per i cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, aprendo le opere di Yin a una lettura universale. In questi lavori, la cucitura di vestiti usati non è più solo portatrice di memoria, ma si fa anche simbolo di uno stile di vita lento, rilassato, introspettivo, opposto a quello veloce e stressante imposto dalla società moderna.
E così arriviamo all’ultimo gruppo di opere di cui volevamo occuparci e che potremmo, nel loro insieme, chiamare “cavità introspettive” – dal titolo di un lavoro del 2008, Introspective Cavity – dove i luoghi d’incontro e riflessione diventano rifugi e prendono la forma di organi-tende – un utero, un cuore, un cervello (Thought, 2009) – ennesima felice trovata della fantasia creativa di Yin. Se prima il parallelo era col contenuto della psiche, ora Yin ne mette in figura il contenitore. Il luogo più privato del corpo, dove riposano pensieri e ricordi e dove nascono le idee, si trasforma in un vano accogliente, in un luogo potremmo quasi dire spirituale, con la luce che filtra attraverso i tessuti azzurri e viola come dalle vetrate d’una cattedrale gotica. È il regalo più generoso di Yin al suo pubblico, un cervello condiviso per attenuare, per un momento, la cacofonia del mondo in cui viviamo.
Stefano Ferrari
D’ARS year 53/nr 213/spring 2013
[1] Da leggersi: /ın ∫u:dʒèn/.