Viviamo in tempi oscuri? Ci troviamo in uno stato di “guerra tiepida” globale? Per analizzare la Biennale di Venezia firmata Okwui Enwezor bisogna necessariamente aprire un dibattito su questioni geopolitiche, economiche.
Chi ricorda (o ha letto di) Documenta 11, diretta nel 2002 dal curatore statunitense-nigeriano, sapeva di potersi aspettare una iniezione di cruda realtà dopo edizioni precedenti che vagavano senza uno scopo definito fra il fascino della creatività umana tout-court o riproponevano un’arte – per quanto di livello – mainstream, pronta per Art Basel. A Kassel nel 2002 pesava la ferita aperta dell’11 settembre, e si caricava di colpa una cultura occidentale in crisi, alla resa dei conti del post-colonialismo.
Venezia, 2015; le questioni sono ancora aperte se non più gravi: siamo in guerra? L’Arsenale, che già storicamente era il centro di un potere militare, si apre con un chiaro monito: i neon d’allarme di Bruce Nauman, le motoseghe di Monica Bonvicini, le maschere disumane di Melvin Edwards e i disegni di macchine da guerra zoomorfiche di Abu Bakarr Mansaray. Non manca il carro armato di Pino Pascali.
Questo è solo l’inizio, eppure il titolo scelto da Enwezor è All the World’s Futures. È la Biennale delle contraddizioni, forse proprio per questo assolutamente attuale e puntuale: di “futuri” non ce n’è nemmeno uno. Enwezor dichiara che il terreno del suo progetto è lo “stato delle cose”, scava nella realtà globale, siamo nel qui ed ora. Non propone alcun punto di vista futuristico, o immaginifico, non un qualsivoglia riferimento al progresso, alle nuove tecnologie, al ritorno in voga di ecologia in tutte le salse (o forse dovremmo parlare di green washing?).
Forse perché consapevole del danno causato proprio dal progresso sfrenato, dall’ideologia capitalista, lanciata verso un futuro di cui in realtà non si preoccupa mai, interessata a creare profitto nell’eterno presente. Come nell’immagine benjaminiana dell’angelo della storia, citato da Enwezor, sospinto verso il futuro ma con lo sguardo sulle rovine del passato.
L’affresco dell’Arsenale non è nemmeno così oscuro, è attuale, vario come sono le soggettività e le lotte in atto nel pianeta, lotte per la vita: sia chiaro, non è una mostra pessimista. Qualcuno ha già scritto che mancano opere d’impatto; in effetti chi si aspettava una avventura visiva stravagante come certe biennali del passato, rimarrà deluso.
L’immaginario è coerente: foto, video, disegni e installazioni dove le immagini ricorrenti sono quelle della guerra, del lavoro, della protesta. Visioni di rovine e di habitat urbani. I progetti in campo sono molti e incisivi, come Frequencies di Oscar Murillo, che ha applicato pezzi di tela in scuole di tutto il mondo lasciando che i ragazzini li riempissero di disegni, scritte e slogan: un osservatorio sull’esprimersi autentico delle nuove generazioni, da toccare con mano. Murillo applica anche delle tele nere sulla facciata del Padiglione Centrale dei Giardini, come monito. Anche la scritta-brand “La Biennale” è oppressa da tre neon di Glenn Ligon blues / blood / bruise, che rimandano in realtà alla brutalità della polizia americana nei ghetti neri (in questo caso Harlem nel 1964, quasi un “lasciate ogni speranza voi ch’entrate”.
Se l’Arsenale parla alla carne e alle ferite, la mostra ai Giardini è più sublimata e si entra nel cuore della Biennale di Enwezor: il Capitale di Marx come sceneggiatura del dramma globale attuale.
Scomparsa la dialettica che animava Marx, siamo al governo del capitale che mette al lavoro le vite in ottica post-fordista. Il centro del padiglione dei Giardini è trasformato in Arena, un auditorium dove Il Capitale verrà letto ininterrottamente e dove avranno luogo performance, concerti, reading, dibattiti. Per citare uno dei progetti commissionati ad hoc: Olaf Nicolai presenta un lavoro ispirato a Non consumiamo Marx di Luigi Nono (1969), dove il compositore aveva incorporato le voci delle proteste alla Biennale “boicottata” del 1968.
Anche i dibattiti sono qualcosa che difficilmente avremmo visto nelle biennali precedenti: il terzo giorno del vernissage Maurizio Lazzarato discuteva con Adrian Piper (vincitrice del Leone d’Oro di questa edizione) sulla necessità della libertà dal lavoro e dal debito, recuperando un’idea di sciopero da opporre al potere prescrittivo e alla messa al lavoro della vita stessa.
L’idea che si ha è insomma che finalmente con Enwezor si discuta dei problemi del presente, si dia spazio all’arte e alla cultura che si fanno ricerca e lotta per il reale e per la vita. Ma la contraddizione più grande sta proprio qui: come recitavano alcuni volantini disseminati in giro per Venezia (lasciati dal progetto Copenhagen Ultracontemporary Biennale), “What does an elitist event like the Venice Biennale has to do with Karl Marx?”.
E infatti: il sistema dell’arte non è proprio la più perfetta realizzazione del post-fordismo, specchio del mercato finanziario a cui imputiamo le colpe della crisi perenne? Una Biennale veramente impegnata per essere esteticamente e politicamente coerente non dovrebbe mettere in discussione sé stessa come istituzione d’élite al servizio del mercato? Vedremo se questa sarà l’occasione per analizzare queste contraddizioni (finalmente) messe in luce.
Oppure se sarà l’ennesimo episodio in cui il mercato ridurrà anche l’arte politica, il dibattito filosofico o sociologico sui temi del lavoro e della crisi, l’arte partecipata e sociale a una nuova moda da sintetizzare, per permettere al sistema dell’arte di continuare a girare ignorando intimamente ciò che sta al di fuori.
Alessandro Azzoni