Wilfredo Prieto ha capito presto che non sarebbe diventato il nuovo Wilfredo Lam. A dispetto degli studi da pittore all’Instituto Superior de Arte dell’Avana, esordiva infatti nel 2001 sulla scena internazionale con Apolítico, installazione scenografica e politicamente scorretta che ancora oggi è il suo lavoro più esposto e lodato dalla critica: trenta bandiere di Stati membri dell’ONU passate in candeggina e ridotte a grigi simboli neutrali come monito ai pericoli del nazionalismo. “Nell’epoca della velocità, l’impatto dell’arte dev’essere immediato” dice il suo autore. “Il lavoro di riflessione e decostruzione del significato di quello che abbiamo visto avviene in seguito, nel tempo. Per questo le mie opere non sono descrivibili: come una fotografia si vedono in pochi secondi ma possono rimanere impresse per sempre nella memoria di chi guarda”. Apolítico ha fatto il giro del mondo: Utrecht, Dublino, Parigi, Sidney, New York, Napoli, San Paolo, Città del Messico e infine Zurigo, dove è entrata a far parte della Daros Latinamerica Collection, la più grande collezione di arte latinoamericana in Europa. Che quest’anno – fino al 23 settembre – l’ha data in prestito ad Art and the City, neonato festival di public art promosso dal capoluogo svizzero. Sull’onda del successo della sua opera prima, Prieto è passato in pochi anni dalla provincia cubana alle vette del sistema dell’arte contemporanea: MoMA, PS1, CA2M, ARCO, Art Basel, primo posto al Premio Cartier 2008 e due partecipazioni alla Biennale di Venezia. Proprio in laguna, nel 2007, all’interno del padiglione dell’Istituto Italo-Latinoamericano, ha esposto l’altro pezzo forte del suo portfolio, Biblioteca Blanca1: una collezione di seimila volumi non stampati, con le pagine e le copertine tutte bianche, graffiante allegoria degli effetti della censura nei regimi totalitari – che lui, nato trentatré anni fa nel cuore della Cuba castrista, conosce per esperienza diretta.
Col paese natìo Prieto mantiene oggi un rapporto conflittuale ma intenso, facendo la spola tra L’Avana e New York, storico approdo per artisti emigrati – tra cui il suo eroe Marcel Duchamp. Le opere che realizza risentono di tale pendolarismo e possono essere idealmente divise in due gruppi: quelle “impegnate”, ispirate dal vissuto a Cuba, che affrontano temi forti come la politica, l’economia, la guerra e l’ambiente; e quelle “ludiche”, influenzate dal clima pop della Grande Mela, che prendono la forma di giochi verbo-visuali tra concettualismo e Young British Art. La tecnica prediletta, per le une come per le altre, è la stessa: con un intervento minimo ma deciso, Prieto prende oggetti già pronti – i readymade di Duchamp – e ne modifica estetica e funzione, provocando un cortocircuito nell’occhio e nel cervello dell’osservatore.
Dal dialogo tra queste due anime prendeva le mosse Equilibrando la curva, la recente personale a cura di Andrea Lissoni presso HangarBicocca – chiusasi il due settembre scorso – che raccoglieva otto installazioni vecchie e nuove tra “il dettaglio minimo e la scala monumentale; elementi delicati e materiali grezzi; opere complesse e altre di una semplicità teatrale”. Il percorso espositivo si apriva con due lavori inediti, Balancing the Curve (2012) e Needle in a Haystack (2012): ovvero un autobus snodabile dell’Azienda Trasporti Milanesi parcheggiato con le ruote “in bilico” su monete da 1 euro – chiaro riferimento all’attuale crisi economica – e un mucchio di fieno alto due metri con un ago nascosto al suo interno, ironica messinscena del celebre detto popolare “cercare un ago in un pagliaio”. Il tour proseguiva quindi con Nebula (2009), che potremmo definire un ossimoro tridimensionale: una nuvola argentea realizzata ingarbugliando chilometri di filo spinato in strette spirali, che appesa sullo sfondo dei fatiscenti Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer2, restituiva un’angosciante visione postatomica. Poco più in là, una betoniera cementata al pavimento del capannone immaginava il destino della sfrenata pulsione edilizia della società contemporanea (Monument, 2012). Accanto alle installazioni extra large, pensate per riempire gli ampi spazi dell’hangar, ce n’erano altre di dimensioni più ridotte: Two Shoes and Two Socks (2012), un paio di scarpe e di calzini da uomo abbandonati scompostamente a terra; A Mirror and Two Stones (2011), burla visiva alla Magritte dove le due pietre del titolo sono una vera, l’altra il suo riflesso nello specchio; e Dying Star (2010), nella quale la didascalia supera le dimensioni dell’opera stessa – la stella morente non è altro infatti che un cerino consumato. Chiudeva la mostra Avalancha (2003), assemblage in progress composto da una fila di oggetti sferici ordinati per grandezza crescente, dalla punta di una penna biro, a un chiosco ambulante a forma d’arancia – in mezzo, tra gli altri, ampolle, palloni da calcio e da basket, palline da ping-pong e da tennis, biglie, un mappamondo, una lanterna cinese e persino un pesce palla imbalsamato.
Su Prieto la critica si è espressa con opinioni discordi. C’è chi ha paragonato il suo modo di fare arte all’atto di respirare, intangibile e necessario. Chi ha parlato di “vuoto autoreferenziale”. Chi – il compatriota Gerardo Mosquera, che lo segue dagli inizi – ne ha sintetizzato la filosofia in un’equazione: concetto chiaro + opera semplice = massimo significato3. Chi scrive oscilla tra i due fronti. La sinteticità narrativa e l’intelligente umorismo sono certamente tra le caratteristiche da lodare. Mi pare però che le opere più recenti non eguaglino l’audacia avanguardista di quelle degli esordi e che soffrano proprio a causa di quell’immediatezza di comunicazione auspicata dal loro autore, uniformandosi piuttosto al modello – ormai accademico – dell’installazione spettacolare “da fiera”. Chissà cosa ne penserebbe Duchamp…
Stefano Ferrari
D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012
[1] Ideata nel 2004 per la galleria NoguerasBlanchard di Barcellona.
[2] In permanenza all’Hangar dal 2004.
[3] Wilfredo Prieto. Tied Up to the Table Leg, CA2M, Madrid, 2011. Pdf scaricabile dal sito del museo.