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Whitney Biennial 2010

Sfogliando il catalogo della biennale ci si rende conto che siamo arrivati forse ad un punto di svolta. Già il titolo la dice lunga: un semplice, conciso “2010”.  Perché non aspettare il 2012 per un titolo del genere? Sarebbe stato più convincente e gravido di significati apocalittici. Che sia giunto il momento di tirare i remi in barca e riconsiderare il senso dell’esistenza delle biennali? Una cosa è certa: ci sono meno opere e meno artisti, (solo 55). E’ questa una biennale ristretta come una camicia lavata male in lavatrice, o sottoposta ad una robusta dieta dimagrante per effetto della crisi? Oppure risente di un modo diverso di guardare alle cose? Questo nuovo assetto i suoi meriti li ha: vuol dire poter aver maggiore margine di riflessione, non essere sommersi dalle opere e girare con tutta tranquillità e calma tra le varie sale che ospitano le opere degli artisti.

Diciamo la verità; quante volte abbiamo criticato le biennali precedenti? Il termine boring, ossia noioso, dovrebbe a volte essere usato come sottotitolo perché le aspettative sono eccessive e si esce sempre insoddisfatti.

Jesse Aron Green still da Zimmergymnastik, 2008 video ad alta definizione
Jesse Aron Green
still da Zimmergymnastik, 2008
video ad alta definizione

Quindi sta diventando, ahimè, quasi normale che la Whitney Biennial si riveli una perenne delusione per il pubblico che non perde mai la speranza di trovarsi di fronte ad un barometro culturale o ad un segnale di innovazione. Non sono mai stati analizzati a fondo i motivi di questo cambiamento che hanno a che fare con il ruolo dell’artista nel contemporaneo. D’altronde la nota estetica del nostro tempo è l’assenza di uno stile riconoscibile e ciò che emerge da questo panorama è la solitudine dell’artista di fronte alla spasmodica ricerca del nuovo. “I giovani sono meno ossessionati dalla grandezza, riescono a lavorare su scala più umana” dice il curatore Francesco Bonami, primo curatore italiano della Biennale del Whitney. Sarà. Comunque l’impatto emotivo e l’audacia espressiva di un’opera non è mai riconducibile alla sua dimensione. La biennale del Whitney riguarda l’arte americana e dovrebbe far riflettere su ciò che gli artisti sentono e vivono in questo tempo. Di come guardano alle nuove tecnologie non vi è traccia. L’artista è solo sul cuore della terra, e a ben vedere il processo è in atto da un po’. Il tempo degli eroi è tramontato, dissolto negli egoismi consumistici come fanno pensare le fotografie di Nina Berman che mostrano ciò che i media non vogliono far vedere: gli effetti della guerra Usa in Iraq sul volto orripilante di un marine sfigurato dalle bombe e ricostruito grazie ad un intervento chirurgico.

La difficoltà dell’individuo a trovare un senso su ciò che accade produce esiti inaspettati. Sul proprio Io e sulla psiche. E’ la disperazione che troviamo nella performance di Kate Gilmore, ripresa dal video, la quale, con tutta la sua forza, distrugge pareti di carton-gesso di  una stanza contenitore ingaggiando un corpo a corpo con lo spazio per superare i limiti di natura più mentale che fisica. Procedendo verso ciò che mi ha suscitato una qualche emozione, cito il video di Josephine Meckseper che ha dedicato buona parte della propria carriera artistica a denunciare, attraverso video, fotografie e film, gli effetti politici e sociali della cultura del consumo, le contraddizioni e le assurdità degli oggetti esibiti. Qui al Whitney era presente con un video Mall of America. Alle scene del Mall si alternano immagini riprese durante una sorta di esercitazione militare: un suono sinistro incombe sulla scena ed accompagna la durata  del video. Lo schermo ironicamente cambia colore in senso patriottico: ora è rosso, ora è blu. Tutto può essere “For sale”, la guerra, la violenza, la merce del supermercato, le persone. E’ come sentirsi risucchiati in un mondo senza senso in cui l’individuo non conta più niente e dove non si sa chi controlla cosa e chi e perché.

Gli artisti nutrono da sempre un interesse particolare nel mettere in scena azioni e situazioni alienanti, scaturite dal desiderio di riaffermare la consapevolezza del corpo e della mente, ma anche per esorcizzare questa contemporanea paura della perdita di controllo sugli eventi. Così fa Aki Sasamoto che indaga la peculiarità dei gesti di ogni giorno trasformandoli in eventi teatrali. Jesse Aron Green esplora le dinamiche della sessualità, del gender e dell’autorità: sedici persone di sesso maschile eseguono 45 esercizi ginnici, ciascuno su di una pedana. Tali esercizi sono stati codificati dal dottore tedesco Schreber nel 1858 per mantenere in vigore e in salute mente e corpo.

E’ interessante notare che il figlio di Schreber, Daniel, finì per essere contagiato dall’ossessione paterna per la disciplina del corpo e divenne psicotico. E’ un invito a riflettere sui pericoli dell’autoritarismo sulle tendenze totalitarie della società che deve produrre anticorpi a questo sistema sennò finisce annientata.

Josephine Mechseper, still da Mall of America, 2009
Josephine Mechseper, still da Mall of America, 2009

L’arte può aiutare a comprendere il tempo e la società?  E’ in atto un meccanismo di potere per cui si promuove la media piuttosto che promuovere chi fa ricerca di nuovi linguaggi espressivi per comunicare come la mente umana si muova per esplorare le complessità dell’esistente. Che sia frutto di una pigrizia dei curatori? Viziati dai loro successi narcisistici vivono in una comfort zone quindi non  si prendono la briga di cercare nuovi talenti .

E’ incredibile come tale pensiero sia dichiarato dallo stesso curatore nel catalogo: ci sono artisti che vivono una loro realtà e anche se sono bravi non avrebbe senso portarli su Madison Avenue ( luogo dove è situato il W.Museum). Il loro lavoro, il loro percorso è così intimo e particolare che sta bene dove sta , nel suo cantuccio isolato. E che poi l’arte è per gli artisti null’altro che “uno sforzo per dare senso alla propria esistenza“!

L’arte che è la massima espressione umana di ricerca della verità ha un potenziale inesauribile, è una forza opposta al controllo sociale e il clima americano di questo decennio ha visto tempi arroventati, come un vulcano incontrollabile, metafora di un umano “climate change”. Di fronte  a tale complessità  anche i curatori sono soli e non sanno o non vogliono leggere tra le righe del presente. Ciò che scrive Bonami nel suo testo introduttivo al catalogo è emblematico e non fa che lasciarci sgomenti: Dove stiamo cercando? Noi ancora non lo sappiamo. Nonostante il titolo 2010 che dovrebbe portarci a riflettere su ciò che stiamo vivendo, riusciamo solo a domandarci: dove è lo spirito del nostro tempo? Si toccano le pratiche artistiche, ma solo delicatamente, come se in realtà non si volesse svegliare la bestia.

 

Stefania Carrozzini

 D’ARS year 50/nr 202/summer 2010

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