La Fondazione Merz di Torino ospita un’esposizione di Wael Shawky dedicata alla trilogia Al Araba Al Madfuna. Un’esperienza sensoriale ancor prima che artistica dove tonnellate di sabbia ricreano un paesaggio desertico che induce il visitatore verso le atmosfere oniriche de Le mille e una notte
È la dimensione del mito a costituire il fulcro del lavoro dell’artista egiziano Wael Shawky; attraverso la trasposizione cinematografica egli intende mettere in scena l’incessante succedersi delle vicende umane partendo dalla constatazione che la tradizione orale eternizza i principali avvenimenti di una civiltà facendoli assurgere al ruolo di miti fondatori. La consapevolezza delle “verità” a questi sottesi può permettere all’uomo di comprendere quali riforme operare al fine di erigere nuovi sistemi socio-antropologici. Questa operazione concettuale ha punti di tangenza con l’indagine che condusse il nostro Giambattista Vico, alla fine del sec. XVII, cercando una correlazione tra gli ideali dell’immaginario collettivo e il mondo reale; tale indagine si basava sullo studio dei mores delle popolazioni più antiche.
In tale approccio filosofico la spiritualità costituisce una parte integrante del processo di crescita ed evoluzione di un’umanità per la quale il rapporto tra mondo metafisico invisibile e mondo fisico materiale è imprescindibile. La trilogia – Al Araba Al Madfuna I, II. III – (dal nome del villaggio in cui è stata girata che si potrebbe tradurre con “Gli arabi sepolti/nascosti”), utilizza a tale scopo le parabole contenute nel libro Dayrout al-Shareif dello scrittore egiziano Mohammed Mustagab. Se in passato per le sue narrazioni Wael Shawky ha fatto ricorso a marionette simili a quelle della tradizione siciliana dei pupi, in questi lavori i protagonisti sono soprattutto bambini vestiti da adulti – con tanto di baffi posticci e turbanti – che tramandano storie e leggende in forma dialogica. Apparentemente inverosimili nella loro grottesca acerbità dissimulata dal travestimento, diventano icone universalizzanti che trascendono il tempo e lo spazio nel farsi portatrici di “verità” atemporali.
Descrivere la trama dei film equivarrebbe a banalizzare il significato del lavoro – oltre che a fare uno sterile “copia e incolla” del comunicato stampa – e in questo risiede a giudizio di chi scrive il limite della produzione dell’artista egiziano. Se le immagini riescono per certi versi a trasferire il significato di una recherche dai presupposti non meno ambiziosi di quelli proustiani, è auspicabile che il nostro riesca a elaborare un linguaggio più immediato che gli permetta di non restare confinato all’ambito degli artisti per pochi iniziati.
Danilo Jon Scotta
Wael Shawky, Al Araba Al Madfuna
Fondazione Merz – Torino, fino al 5 febbraio 2017