Vintage mania. Sempre di più la moda si affida agli archivi e alla propria storia per trovare ispirazione: il gusto per il vintage è un fenomeno comune a diversi settori che ha motivazioni tanto pratiche che culturali ma che per l’abbigliamento può trasformarsi in una gabbia
Da almeno due decenni le nuove proposte della moda trovano frequente ispirazione nelle epoche passate. Alla base di ogni collezione di abbigliamento ci sono sempre “concept” (tradotti poi in colori, linee e dettagli) che hanno origine praticamente ovunque, tanto in una suggestione artistica o pop quanto nella rappresentazione in immagini di un concetto immateriale.
Sempre di più però le“sceneggiature” dietro le collezioni sono supportate da input di lavorazioni, motivi decorativi e stampe che derivano direttamente dagli archivi. Quando non si tratta di interi capi.
Sfilata retro’ – Marc Jacobs FW 2012 – WikimediaCommons
Parallelamente anche le preferenze dei consumatori hanno cominciato a includere il recupero e il “brocantage”, perché tutto ciò che appare raro, unico e vissuto assume un valore più elevato ed esercita un’attrazione e una seduzione molto forti.
A livello creativo e progettuale tuttavia non si tratta soltanto di crisi creativa o di una conseguenza della percezione del lusso generata dall’esclusività – come è ben spiegato ne Il fascino indiscreto della scarsità di Stefano Sacchi (Quando limited edition, tempora rystore e altre manovre di marketing si incontrano con la rarità e il collezionismo, 2016, Franco Angeli). È più probabilmente un’esigenza pratica dovuta al ritmo sostenuto delle nuove uscite (un aspetto complementare alle strategie basate sulla “scarsità” che moltiplica le edizioni limitate, le capsule collections, le riedizioni) e che si salda a un’impronta di tipo culturale che va oltre la moda.
L’argomento trova tesi a favore e a sfavore anche nella storia dell’arte: Nell’odierna storiografia artistica si tende a sorvolare sull’idea di progresso. È un’idea che abbiamo superato, insieme a quella di decadenza. Qualunque universitario al primo anno sa già che Michelangelo non vale più di Giotto, bensì è soltanto diverso: questo scriveva già nel 1971 E. H. Gombrich in Arte e progresso. Storia e influenza di un’idea, un volume che raccoglieva due precedenti conferenze. Oggi la fede nel progresso è in piena crisi. Bisogna essere sempre “assolutamente moderni”, come raccomandava Rimbaud? Nella scienza, nella tecnica, nella morale e nell’arte? L’interrogativo era ovviamente retorico ma Gombrich stesso metteva in guardia dal rischio dell’imitazione e del declino insiti nelle concezioni classiciste.
Tornando alla moda, alla quale non sono comunque estranee le dinamiche dei linguaggi artistici, è all’incirca dall’inizio degli anni ’90 che ci si è allontanati dall’idea di guardare costantemente avanti, mentre al contrario, nei primi decenni del secondo dopoguerra l’idea di futuro era stata per l’abbigliamento una forte spinta alla creatività.
Il “vintage” (altra cosa rispetto ai negozi dell’usato e ai Charity shop già diffusi dagli anni ‘60) emerge proprio negli anni in cui, dopo l’ebbrezza massimalista degli anni ‘80, la moda è segnata da tendenze miste, fra le quali si fanno strada tanto il minimalismo concettuale di scuola belga quanto i look drammatici degli inglesi Galliano e McQueen, look di ispirazione haute couture che anticipano il desiderio di lusso degli anni 2000.
La necessità di quel periodo era quella di reperire tecniche e lavorazioni che erano state temporaneamente accantonate dalla democratizzazione industriale del pret à porter, a maggior ragione se regalavano anche il fremito culturale e nostalgico della riscoperta.
Il concetto di nostalgia è infatti un plus formidabile nell’accendere l’interesse dei consumatori, ed è un concetto esploso sostanzialmente con l’avvento della cultura di massa che lo ha enfatizzato prima attraverso la fotografia, il cinema e la pubblicità.
In un episodio della serie Mad Men (serie che per la cura visiva ha molto a che fare con la moda e l’ha più volte ispirata) The wheel – si assiste a come un banale riproduttore di diapositive acquisti un nuovo valore sentimentale proprio come veicolo di nostalgia. Operazione che riesce benissimo anche ad abiti e borsette, d’epoca o nuovissime ma riecheggianti un gusto scomparso. La moda (come del resto il cinema, la televisione e la letteratura) è quindi diventata autoreferenziale attingendo a piene mani dalle epoche passate.
E siccome i decenni scorrono velocemente uno dopo l’altro, l’ultima epoca a cui ispirarsi è ora quella del cosidetto contemporary vintage, e cioè proprio quegli anni ’90 nei quali il fenomeno ha avuto inizio e che già sono diventati un bacino di idee a disposizione degli attuali direttori artistici.
La moda di quell’epoca, attraverso alcuni creatori di punta come Margiela, Jil Sander e Helmut Lang, esprimeva messaggi forti e “sovversivi” come la destrutturazione dei capi, l’anonimato, un minimalismo radicale; quegli anni sono perciò considerati come l’ultimo grande periodo di creatività prima dell’avvento della moda gestita quasi completamente dai luxury brand. Fra i tanti creativi a soccombere al fascino dei ’90 Demna Gvasalia con il progetto Vetements e Shayne Oliver con la rinata collezione Helmut Lang: entrambi hanno offerto una reinterpretazione di capi emblematici di quel periodo, sfumando sempre di più il confine fra ispirazione e appropriazione.
I mercati più ricchi, quelli dove il ready to wear di alta gamma registra ora i guadagni più alti, probabilmente non sono ancora in grado di identificare nitidamente le ripetizioni e i dejà vu nelle collezioni dei vari brand, ma è certo che questa spirale autoreferenziale prima o poi diventerà anche un problema commerciale. Sovrabbondanza di uscite e di collezioni per bruciare sul tempo i concorrenti e immettere sempre nuove proposte negli store – fisici o online – lasciano poco tempo ai creativi per sperimentare o uscire da percorsi già noti.
Intanto Google, dopo avere digitalizzato per anni i musei di tutto il mondo, si sta rivolgendo alla moda: la missione aziendale di organizzare le informazioni del mondo e renderle universalmente accessibili e utili è ora confluita anche in WeWear Culture, un hub culturale e uno strumento di ricerca creato in collaborazione con 180 istituzioni museali – tra cui il Metropolitan Museum of Art’s Costume Institute, il Victoria & Albert Museum e il Kyoto Costume Institute. Un’altra capsula del tempo a disposizione di studenti e designer per velocizzare la ricerca finora svolta nei mercati.
Claudia Vanti