In questo distopico anno, segnato da introspezione, inquietudine e solitudine, molti di noi si sono domandati quale sarebbe stato il momento cruciale in cui la vita avrebbe ripreso una parvenza di normalità, e quale, a quel punto, sarebbe stata la prima cosa che avrebbero voluto fare. Questo momento cruciale si è dilatato in un moto infinito nel tempo, in un diabolico ciclo voltiano di continui ricorsi segnato da questa parte dell’oceano anche da stridenti contrasti politici, e da una lotta all’ultimo sangue per la conquista della sedia più ambita al mondo, quella della Stanza Ovale…
Le tensioni politiche e non, i mattutini risvegli con un senso di panico ed anticipazione per l’ennesima provocatoria affermazione pubblicata nottetempo sui canali social media e stampa, hanno legittimato l’atavica rabbia di una grossa parte della popolazione, fondamentalmente molto più frammentata e divisa di quanto il sogno americano non voglia far credere al resto del mondo, ed hanno inevitabilmente dato violenta espressione a gravissime problematiche a sfondo razziale, anche nei confronti dei vicini a sud, definendo un nuovo scenario sociale in questa nazione fatta di mille nazioni.
Il mio di sogno, dopo mesi trascorsi in quasi totale isolamento e con una strettissima routine casa/parco/casa, è stato di tornare riempirmi gli occhi di bellezza, e di respirare ancora una volta il pulsante cuore di questa città, da molti dichiarato in linea piatta, ma che ha continuato a battere, sebbene con un ritmo letargico che ne ha protetto l’epicentro ferito. Nei giorni seguenti la riapertura dei musei mi sono goduta insieme a pochi eletti gli spazi vuoti delle sacre sale di alcuni dei musei più famosi al mondo: il Metropolitan, Il MoMA, Guggenheim, e l’ultimogenito (come sede rimodernata dal nostro Renzo Piano) Whitney Museum.
La mostra del Whitney “Vida Americana: Mexican Muralists Remake American Art, 1925-1945“, tocca corde piuttosto significative, per le tematiche trattate, la cui attualità si è fatta sempre più pressante con il passare dei mesi del proprio allestimento newyorchese, in parallelo agli avvenimenti sociali e politici che hanno segnato lo scorso anno.
Curata con sottile intelligenza, la mostra ricostruisce l’eredità panamericana di artisti del calibro di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, noti come “Los Tres Grandes“, sulla scena culturale statunitense della metà del secolo scorso, che è andata a definire stilisticamente e culturalmente movimenti sociali ed artistici in anni cruciali per la società americana (del nord), grazie anche alle influenze dei vicini al sud. Con un formidabile numero di dipinti, studi e riproduzioni su larga scala di opere chiave dei muralisti messicani, insieme a pezzi contemporanei di artisti statunitensi, da Jackson Pollock a Charles White, la mostra riafferma il potenziale politico dell’arte visiva, nel passato, come nel presente. Ironico come questo avvenga in un momento in cui le tensioni sociali e politiche e tra i governi degli Stati Uniti e del Messico descritte dalle opere di un secolo fa si stiano riproponendo nella società contemporanea. La mostra ripercorre in dettaglio i ricchi scambi culturali transfrontalieri, ed offre un potente promemoria del fatto che “l’arte americana” comprende l’arte di tutte le Americhe, così come la società americana non può prescindere da tutte le influenze che ne compongono il complesso tessuto sociale.
In un momento storico in cui il motto “America first” echeggiava virtualmente e sonoramente in questa nazione, ritengo prezioso il contributo del team curatoriale del Whitney che ha messo insieme un potente gruppo di opere che ci ricordano quanto America First non possa prescindere da fondamentali influenze provenienti dall’altra parte del tanto anticipato (ma fallito) muro.
La narrativa standard della pittura americana si è a lungo concentrata sulla nozione di modernismo influenzato dall’Europa che sfocia nell’espressionismo astratto del dopoguerra. Ma questa versione della storia oscura il lavoro di diversi artisti che tra gli anni ’20 e ’40 hanno perseguito modalità figurative uniche e che hanno invece guardato a Città del Messico tanto quanto a Parigi come un modello da emulare. L’avanguardia politicamente radicale dei “tres Grandes” ha infatti ispirato una generazione di giovani pittori con sede negli Stati Uniti che hanno compiuto pellegrinaggi in Messico, lavorato come assistenti di artisti messicani e creato murales in entrambi i paesi.
Uno degli elementi a mio parere di grande interesse di questa mostra è lo studio, tramite opere che potrebbero essere state create a metà 2020, dell’enfasi dei muralisti sulla solidarietà razziale, per cui artisti afroamericani tra cui White e Jacob Lawrence adottano le tecniche narrative, i colori audaci e la chiarezza gestuale delle loro controparti messicane per mettere in primo piano le esperienze dei neri negli Stati Uniti, con dei paralleli da brivido con le moderne manifestazioni per i diritti delle persone di colore che hanno segnato l’opinione pubblica e le prime pagine dei giornali di tutto il mondo negli ultimi mesi.
L’influenza più duratura dei muralisti, tuttavia, potrebbe essere stata dal punto di vista figurativo, nello sviluppo dell’espressionismo astratto. Jackson Pollock ne è la figura chiave, e il Whitney include diversi esempi eloquenti della sua evoluzione. Studente sia di Benton che di Siqueiros, Pollock fu probabilmente incoraggiato a sviluppare la sua caratteristica tecnica di gocciolamento osservando gli esperimenti ad ampio raggio di Siqueiros con torce, aerografi e altri strumenti industriali.
Ecco dunque tracciata con sublime eloquenza una nuova linea di collegamento tra nazioni, continenti e modalità espressive che rafforza ancora una volta quanto il grande Impero Americano debba molto della sua grandiosa forza alla sua intrinseca apertura ed agli influssi sociali e culturali che ne hanno plasmato la sfaccettata anima.
Chiara Carfì, marzo 2021