Si concluderà il quindici luglio a Palazzo Grassi a Venezia la mostra di Urs Fischer, Madame Fisscher, curata da Caroline Bourgeois.La mostra presenta una panoramica sulla carriera dell’artista – considerato uno dei maggiori scultori della nostra epoca – e sui principi teorici alla base delle sue creazioni: combinando illusione e realtà, violenza e ironia, eternità e fugacità, l’universo creativo di Urs Fischer è al contempo logico e assurdo. L’artista cerca di catturare un equilibrio instabile il cui significato non è mai completamente definito.
Al piano terra del palazzo si viene accolti con sorpresa da un’opera di Jeff Koons, Balloon Dog, come esempio di un prodotto finito del processo creativo; per contrasto poco più in là si trova un’installazione che rappresenta la ricostruzione dello studio di Fischer a Londra. Si tratta di una stanza dove dominano confusione, scarti e sporcizia: ma da quel caos informe nascerà qualcosa. Come nella misteriosa scultura The Light Sigh is the Sound of my Life (2000- 2001),costituita da un’enorme e sgradevole sfera che sembrerebbe ricoperta di qualcosa di simile a pelle umana e capelli, e che ruota lentamente su se stessa grazie ad un dispositivo elettromeccanico, rappresentando quasi un incompiuto e mostruoso essere vivente condannato all’immobilità.
Fischer dà rilievo al processo ideativo che precede la creazione dell’opera, alla ricerca che procede spesso per tentativi ed errori. Ma anche alla confusione che alberga entro ogni essere umano e che rischia di emergere nei momenti storici, sociali o individuali, gravemente critici e frustranti.
Un altro dei risultati della ricerca dell’artista svizzero è Untitled (Holes): in una stanza pendono dal soffitto parti anatomiche umane ben precise, riproduzioni di cinque orifizi del corpo umano maschile i cui condotti finiscono nel vuoto. E se tra loro non ci fosse la rappresentazione scultorea di parte dell’organo genitale maschile, sarebbe arduo individuare il genere del corpo a cui appartengono gli orifizi stessi, tutti circondati da una simulata superficie epidermica rosea, soffice e glabra. L’opera è centrata sui canali di scambio tra interno ed esterno del corpo, con un apparente rimando iniziale e vago alla biologia, ma subito dopo con il potente emergere di un riferimento alla sensualità e alla sessualità. Infatti anche Bice Curiger ha parlato della “penetrazione come concetto essenziale della vita degli uomini”.
Un continuo spaesamento, un pesante disorientamento quello operato da Fischer. Gli oggetti vengono continuamente, e a più livelli, separati dai loro usuali significati e lasciati fluttuare nell’immaginazione dello spettatore. Altro discorso affrontato da Fischer è la consunzione che distrugge le opere, come le due sculture a grandezza naturale in paraffina rappresentanti l’autoritratto dell’artista e il ritratto di un suo amico. Qualcosa di analogo era stato esposto alle Corderie dell’Arsenale nella scorsa Biennale: in vari punti delle statue di cera affiorano degli stoppini che, accesi a turno, porteranno al disfacimento dei personaggi rappresentati. Un richiamo all’inesorabilità della morte? Il tempo come soggetto trasformatore?
In mostra si trovano anche lavori alla storia dell’arte; in Clouds viene reinterpretato il motivo delle nuvole caro alla pittura ottocentesca, attraverso la scelta di un materiale come il polistirolo (scarabocchiato sul lato nascosto), illuminato da una romantica luce rosa, con dei richiami sia alla Pop Art che all’Arte Povera.
Altro tema su cui sono imperniati alcuni lavori esposti è quello della sedia, dei mobili corrosi dal tempo e magari appoggiati in magico equilibrio uno sull’altro. Fischer stesso spiega: “Non mi interessano gli oggetti in sé, ma la situazione in cui sono collocati, ovvero l’interazione tra i diversi elementi di un’opera. Non dal punto di vista compositivo, ma da quello politico”. Un’affermazione che sembra non spiegare nulla, anzi infittisce il mistero: quale potrebbe essere il significato politico o soltanto il rimando politico di una sedia impolverata in bilico su una logora credenza? O di una poltroncina girevole da ufficio a cui sta legato come un palloncino un cannoncino in alluminio che parrebbe volersi librare in aria? O di sedie ricoperteda un’imprecisa sostanza in apparente decomposizione, quasi a dichiarare il fallimento della loro universalmente accettata funzione?
Potrebbe venire il dubbio di trovarsi di fronte ad una farneticazione, a una distorsione del pensiero, a un delirio. Ma poi la mente va indietro nel tempo, alle trattative per la pace tra USA e Vietnam negli anni Settanta, ai mesi necessari per trovare un accordo sulla forma del tavolo della trattativa, che doveva essere prima rettangolare, poi circolare, poi ovale… ovale, come il celebre studio presidenziale all’interno della Casa Bianca a Washington.
E poi da uno dei muri di Palazzo Grassi sbuca un altro frammento di corpo umano, una mano, la mano dell’artista nell’atto di stabilire un delicato contatto con l’oggetto frutto della creazione, un uovo vero. Un uovo di gallina, s’intende, anche se non stupirebbe poi tanto trovarsi di fronte ad un gamete femminile, una cellula uovo appunto.
E in un certo senso siamo vicini alle cellule uovo in una delle più recenti opere del trentottenne artista svizzero: in Necrophonia ( 2011 ) un’intera sala è costellata di bozzetti e sculture metalliche, fra cui si nasconde una modella completamente nuda, la quale, anche a seconda delle capacità relazionali del visitatore, può dialogare col pubblico. La situazione è volutamente imbarazzante, soprattutto quando la modella si erge in tutta la luminosità della sua pelle di fronte al visitatore magari bardato con impermeabile e ombrello, sospingendolo a riflessioni sul rapporto fra natura e arte, fra essenza dell’essere umano e creazione artistica; vi sarebbe pure il libero accesso allo spogliatoio delle modelle, sito in una stanza adiacente, quasi a voler enfatizzare gli interrogativi sui confini fra finzione e realtà, fra spazio museale e intimità personale.
L’artista è proprio colui che può permettersi di infrangere tali limiti, e con il suo esempio pone il fruitore da un lato in una posizione d’invidia, ma dall’altro lo stimola a riflessioni su cambiamenti personali e sociali. Dall’immaginario al reale, attraverso il simbolico.
Edoardo Piluti
D’ARS year 52/nr 210/summer 2012