Agopuntura urbana come metafora per un nuovo modo di intendere la cultura degli interventi architettonici e urbanistici. La Biennale di Architettura di Aravena presenta pratiche e approcci che rispondono in questo senso alle emergenze contemporanee.
Esco dalla Biennale Architettura 2016 con il solito retrogusto dolceamaro, ma forse un po’ più sereno del solito perché ormai ho capito come affrontarla: se partiamo dai toni, dalle parole evocate, dalle sfide che i padiglioni dicono di voler affrontare – e se a queste aggiungiamo anche le aspettative ‘sociali’ suscitate dalla scelta di Aravena come curatore – non si può che rimanere parzialmente delusi.
Se, al contrario, si parte dal riconoscimento che si tratta comunque ‘solo’ di un festival di architettura (seppure importante), per di più di un festival istituzionalizzato (ormai alla 15 edizione), allora possiamo rilevare che non sono mancati spunti e focus stimolanti. Tra questi ne voglio evidenziare cinque:
- Il coinvolgimento attivo degli abitanti nella progettazione architettonica e urbanistica e, in generale, l’attivazione delle forze urbane locali. Significative su questo le esperienze rappresentate nei padiglioni di Ungheria e Iran e alcuni percorsi comunitari in contesti post-disastro come quelli narrati dal padiglione della Thailanda – tema, questo, che vede Aravena stesso tra i maggiori esponenti a livello mondiale.
- L’architettura incrementale, non finita, progressiva, (anch’esso tema araveniano par excellence, si veda il suo Elemental) ben rappresentata dal padiglione della Croazia (We need it, we do it). L’effimero e il non concluso sono stati oggetto di esplorazione di molti padiglioni: dall’uso effimero dello spazio pubblico (si veda, tra gli altri, il lavoro dello studio Estonoesunsolar presentato nel padiglione italiano), sino alla costruzione di vere e proprie ephemeral megacities, costruite in occasioni di grandi eventi religiosi, culturali o musicali (es. Kumbha Mela, Burning Man) presentate nel lavoro di ricerca di Mehrotra & Vera, uno dei più significativi per l’impatto visivo e immaginifico;
- Il tema della memoria e della sua relazione con l’attualità e con il futuro; da segnalare il padiglione dello Yemen con il suo richiamo alla conservazione del patrimonio di architettura tradizionale e artigianale e, soprattutto, il lavoro del padiglione irlandese (Losing Myself) sulle modalità di esperire lo spazio da parte dei malati di Alzheimer, che consiste in un assoluto qui ed ora, senza memoria appunto, senza proiezioni, senza modelli consolidati da ripetere; questa esperienza è presentata da un lato come un’occasione per esperire una sorta di totalità fenomenologica, dall’altra come atto d’accusa ad una società che rischia di diventare sempre più smemorata e disfunctional;
- il tema delle migrazioni, rappresentate sia dal lato delle società di provenienza (si veda la memoria dell’emigrazione e del relativo displacement rievocata dai canti isopolifonici tradizionali del padiglione albanese) che da quello delle società di arrivo (su questo tema il padiglione tedesco, Making Heimat. Germany, Arrival Country, è stato senza dubbio uno dei più significativi, analitici e d’impatto);
- il tema dello spazio pubblico e, più in generale, della natura relazionale degli spazi; qui una citazione particolare va al padiglione danese che omaggia un guru di questi processi cioè Jan Gehl, ma stimolanti sono anche le esperienze di progettazione di soglie relazionali tra l’interno e l’esterno degli spazi domestici presentate nei padiglioni di Messico, Sudafrica e, soprattutto, Giappone (quest’ultimo ci regala anche un possibile strumento concettuale, quello di En, che significa proprio luogo che stimola l’interazione tra interno e esterno).
Tutti questi temi non sono, presi in sé, “inediti” ma allo steso tempo non sono affatto mainstream nella pratica architettonica e quindi l’enfasi posta dalla Biennale appare indubitabilmente significativa. Nel complesso da queste suggestioni tematiche si potrebbe partire per costruire un nuovo modo di fare architettura e, più in generale, di ‘fare città’ che si fondi su un’attenzione e un’attivazione puntuale delle risorse locali, umane, relazionali e spaziali; che dia vita, cioè, ad una sorta di ‘agopuntura urbana’.