Le vite virtuali non sono vite duplicate. Sono vite potenziate. E la “seconda vita” non è uno stato, ma una cattiva metafora che svolge male la sua funzione, ossia quella di indicare una delle tante possibilità della “vita sullo schermo” (Sherry Turkle). Credo di averne avuto la rivelazione definitiva quando ho visto abbracciarsi Gazira Babeli e Man Michinaga, due degli artisti più importanti di Second Life. Nella prima, non nella seconda vita. I due corpi rivelavano un’intimità imprevedibile se si pensa che fino a pochi minuti prima quell’intimità nasceva dalle parole scritte sul monitor di un computer. Questo tipo di intimità è già nota: è quella, prima, degli amici di penna, e ora, degli amici di email o di chat. Anche la possibilità di una vita “fictional”, frutto di narrazione e di rappresentazione, era già nota: era quella di Rrose Selavy, di Roberta Breitmore, di Monty Cantsin, di Luther Blissett, e di tanti altri. Quello che i mondi sintetici aggiungono a tutto ciò sono un corpo e uno scenario. Non è poco. Il dialogo cede il posto al teatro. “All the world’s a stage, And all the men and women merely players… And one man in his time plays many parts…”, scriveva Shakespeare in As You Like It. Un mondo sintetico non è altro che questo: un palcoscenico che ci consente di interpretare una maschera. Uscire dalla prospettiva della “seconda vita” semplifica fortemente le cose, e consente di chiarire diversi equivoci. Perché ostinarsi a parlare di virtuale, quando possiamo parlare di spettacolo? Pere Ubu virtuale? Ma per favore…
1. Tutto è teatro. In un mondo sintetico, tutto è teatro. Si comincia disegnando la propria maschera, e attribuendo una personalità, e una vita, al proprio personaggio. Poi si passa allo scenario. Molto spesso, si entra in una sceneggiatura già scritta: è quanto accade in tutti i giochi di ruolo online. In Second Life, questo non succede, se non parzialmente. Alcune scelte iniziali sono decisive: se si decide di essere furry, si è furry per sempre. Per il resto, si tratta semplicemente di entrare a far parte di un sistema sociale complesso, con alcune regole di base e ampio spazio d’invenzione. È questo, per inciso, che rende Second Life tanto noioso, e a tratti angosciante: la maggior parte dei suoi abitanti sono personaggi in cerca di autore, maschere senza sceneggiatura. Storie scritte male.
La forza della sceneggiatura diventa la forza del personaggio. Aimee Weber è stata abilissima a costruirsi il personaggio della designer di successo, Lanai Jarrico è perfetta nel ruolo di giornalista, Anshe Chung un’ottima milionaria. Aprire una galleria è, prima che un’avventura economica, teatro. Fare l’artista è, prima che una carriera, teatro. Le opere non valgono nulla in quanto tali, servono solo a conferire solidità al personaggio. Parlare di arte in Second Life è un equivoco: in Second Life non c’è arte, ci sono artisti. L’arte è scenografia, o, al massimo, elemento drammaturgico. Credere – come fanno molti – nella possibilità di un’arte in Second Life vuol dire soccombere alla finzione, ritenersi persone invece di attori. Un’architettura visionaria, una installazione audiovisiva, un’immagine, un avatar bizzarro non hanno, come nella realtà, valore in sé; sono arte solo nei termini in cui le scenografie di Picasso per i balletti russi lo sono: ossia per il contributo che danno alla narrazione, o al personaggio.
Con questo, non intendo dire che un’opera di Gazira Babeli non sia arte: ma che è arte in quanto parte attiva di una narrazione che funziona, e che rimane forte anche quando raccontata al di fuori di Second Life. Le opere di Gazira sono arte perché Gazira è una supermarionetta. Il suo spettacolo è la sua arte. Si potrebbe fare un discorso analogo per Starax Statosky, per Second Front, forse anche per Dancoyote Antonelli, Adam Ramona e pochi altri ancora. Se la narrazione non funziona, l’arte perde qualsiasi tipo di interesse. L’artista deve essere consapevole di essere il fulcro di una storia, e deve essere in grado di scriversi un buon soggetto. Un artista senza un buon soggetto non è un artista. Non lì.
2. L‘equivoco della rimediazione. In una seconda vita, qualsiasi cosa accada è una replica della prima. Da qui, l’equivoco linguistico implicito in tutte le parole che iniziano in “second” o in “re-”: Second City, re-enactment, remediation, etc. Torniamo al teatro. Lì, ogni spettacolo è una prima o una replica. Ogni personaggio è un’invenzione o è modellato su una persona reale (l’attore, un personaggio storico). Ugualmente, in Second Life posso decidere di raccontare una storia nuova (Spawn of the Surreal di Second Front) o replicare una performance già eseguita (Marina Abramovic’s Imponderabilia di Eva e Franco Mattes). Posso trasformare il mio io reale in personaggio (gli avatar di Eva e Franco Mattes, modellati sui loro corpi); posso incarnare un personaggio d’invenzione e raccontare la sua storia (Cao Fei che racconta la vita del suo avatar China Tracy nel video i.Mirror); posso dare vita a una maschera che reinterpreta un personaggio pubblico (Patrick Lichty che indossa le sembianze di Cicciolina). A volte, il personaggio acquista tale concretezza da prendere il sopravvento sull’attore (Gazira Babeli come Totò, come Keaton, come Charlot, come Monsieur Hulot). E, come a teatro, tutte queste possibilità possono convivere nello stesso spettacolo: Eva e Franco Mattes, con gli avatar disegnati a loro immagine e somiglianza, interpretano Imponderabilia mentre Gazira Babeli e Man Michinaga, letteralmente trasformati in Marina Abramovic e Ulay, interpretano la Pietà. Rimediazioni? Perché non semplicemente “azioni”, come implora Gazira?
3. Codici e sceneggiature. Qui è l’italiano a crearci dei problemi. In inglese, la parola è una sola: script. Una parola per indicare i due livelli su cui si sviluppa la performance in un mondo sintetico: codice e interfaccia. Entrambi gli interventi hanno senso solo in relazione l’uno all’altro, e solo se contribuiscono alla narrazione, se creano una storia. Esempio: arrivo su Locusolus, vedo due torri di marmo colorato che proteggono, come un nido, delle uova di marmo bianco. Mi avvicino, le due torri rovinano fragorosamente su di me, poi tornano in piedi. Ecco una storia. Tutti i lavori di Gazira sono storie. Se entro in Olym Pong, le mura di un tempio greco mi trattano come una pallina da tennis; nella cripta di You Love Pop Art – Pop Art Dies With You i teschi che incrostano le pareti mi crollano in testa. Se mi siedo su Avatar on Canvas, zoppico come una mantide finché non mi decido a uscire da Second Life.
Ora andiamo a Odyssey, dove sono installati i lavori di Adam Ramona. Un tappeto di poligoni blu cobalto: io entro, loro suonano. Colori puri, forme astratte. Sculture audiovisive, oggetti cinetici. Codici senza sceneggiatura. Come le installazioni e i pannelli optical di Dancoyote Antonelli, questi lavori possono competere al massimo con le strabilianti creazioni delle centinaia di architetti e designer di Second Life. Ma anche da questo confronto escono sconfitti, perché ambiscono ad essere qualcos’altro: arte. Molto meglio un grattacielo spiraliforme, un parco giochi. O uno zoo.
La storia, beninteso, non deve essere necessariamente ironica, paradossale, come nei lavori di Babeli. L’importante è che l’opera si faccia esperienza, narrazione: in questo senso, le performance di danza orchestrate da Antonelli sono molto più interessanti delle sue sculture, e gli ambienti caleidoscopici di Juria Yoshikawa resistono nonostante la forte sensazione di luna park o di club notturno proprio in virtù della loro natura di esperienza, di evento magico, mistico, disincarnato.
4. Uscire da Second Life. Per qualche tempo, mi sono illuso che l’arte potesse uscire da Second Life. Altro bisticcio terminologico. La scenografia non può uscire dal teatro, perché è priva di interesse fuori da lì. Una scultura di Ramona o Antonelli non avrebbe alcun senso nel mondo reale, come non ne hanno gli scenari dell’Aida. Il teatro di Second Life, invece, è interessante, e può essere raccontato, come quello di ogni altro mondo sintetico. Lo è nella misura in cui solleva questioni come il feticismo, la moltiplicazione e l’estensione dell’identità, il senso del corpo e dello spazio in un mondo simulato, l’affettività mediata dal computer. Tutto questo può essere documentato attraverso stampe, video, eventualmente sculture. Il citato video di Cao Fei documenta la vita affettiva di un avatar. La serie Replica, di Marco Manray, riflette sulle sfide poste da un ambiente sintetico alla costruzione identitaria. I ritratti di avatar di Eva e Franco Mattes indagano le forme dell’autorappresentazione, e le varie culture che la determinano. Le sculture di Goldin+Senneby, come quelle di Scott Kildall e Victoria Scott, danno consistenza agli oggetti del desiderio prodotti dagli avatar. Le stampe, i video e le recenti sculture di Gazira Babeli raccontano la sua esistenza in chiave leggendaria e le sue opere come elementi chiave della sua leggenda.
Forse, solo gli scripted object e gli scripted environment di Gazira Babeli potrebbero, per la loro pregnanza concettuale e la loro teatralità, essere ricreati nel mondo reale. Per ora, la fermano la loro imponenza monumentale e la sfida che lanciano alle leggi della fisica. O forse, ha solo bisogno di un buon impresario.
Link
Gazira Babeli – http://www.gazirababeli.com/
Dancoyote Antonelli – http://www.dancoyote.com/
Adam Ramona – http://yamanakanash.net/
Second Front – http://slfront.blogspot.com/
Cao Fei / China Tracy – http://www.alternativearchive.com/chinatracy/
Eva e Franco Mattes – http://www.0100101110101101.org/
Goldin+Senneby – http://www.objectsofvirtualdesire.com/
Scott Kildall e Victoria Scott – http://transition.turbulence.org/Works/nomatter/
Marco Manray – http://www.marcomanray.com/
Domenico Quaranta
D’ARS year 48/nr 194/summer 2008