Dal 6 al 16 agosto si è svolta la 67.ma edizione del Festival del film di Locarno; una grande offerta di cinema di qualità, con ospiti e premi, applausi in sala e code chilometriche per vedere le prime mondiali dei film, suddivisi come sempre nelle principali sezioni tematiche: Concorso internazionale, Cineasti del presente, Pardi di domani, Semaine de la Critique, oltre ai fuori concorso, ai premi speciali e alla Retrospettiva Titanus, omaggio all’omonima casa del cinema fondata nel 1904 da Gustavo Lombardo, che attraversa la storia del cinema italiano. La retrospettiva si focalizza principalmente sul periodo tra il 1945 e il 1965 con registi tra i quali Luigi Comencini, Valerio Zurlini, Alberto Lattuada, Vittorio de Sica, Mario Bava, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni.
Come lo scorso anno il direttore è stato l’italiano Carlo Chatrian, puntuale all’inizio di ogni proiezione per presentare registi, attori e produttori in sala e ricordare la “mission” del Festival, sottolineata nel catalogo: anche quest’edizione intende promuovere i registi e i film che fanno del cinema uno strumento di libertà espressiva, estraneo ai condizionamenti del mercato. Sono nomi noti o da scoprire, che insieme si fanno portatori di una ricerca che mette al suo centro l’uomo e il mondo che abita (Elenco completo dei vincitori e dei premi).
Quest’anno siamo state a Locarno venerdì 8: abbiamo visto cinque lungometraggi (tra i quali due premiati) e diversi cortometraggi. Ha aperto la mattinata la prima mondiale di Ming Tian Hui Geng Hao, (titolo impronunciabile), in inglese On the rim of the sky di Xu Hongjie (Germania/Cina 2014), inserito nella categoria Semaine de la critique, giunta alla 25.ma edizione (sette i film selezionati per questa sezione dai critici dell’ASGC, associazione svizzera dei giornalisti cinematografici). Si tratta di un’opera prima della regista, produttrice e sceneggiatrice Xu Hongjie, ambientata in un villaggio di etnia Yi situato oltre il bordo di una scogliera nel Sichuan, in Cina. Fino al 2004 gli abitanti erano tagliati fuori dal mondo, senza elettricità e con la sola possibilità di accedere al villaggio con liane, sostituite da mulattiere scavate nella roccia solo in epoca recente. Un docufilm di due ore, talvolta un po’ noioso, ma particolarissimo per soggetto e luoghi. La tradizione, impersonata da Shen, maestro di scuola del villaggio senza i titoli ufficiali per esercitare, in lotta con il nuovo, impersonato da Bao, volontario arrivato dall’università che porta scompiglio nella “tribù”. Dopo lunghe ed estenuanti battaglie “diplomatiche” per spodestare il vecchio maestro e altrettante lotte per recuperare i fondi e ristrutturare la scuola, il giovane volontario parte verso nuove avventure, Shen viene trasferito e la scuola chiusa. Si perdono gli sguardi felici dei bambini, trasferiti in una normale scuola di città con maestri “veri” e poca gioia. Senza alcun accento retorico il film non da’ risposte ma certamente pone molte domande. Inquadrature lunghissime sugli abitanti del villaggio si alternano a splendide riprese su una natura mozzafiato, dove le piccole identità umane soccombono.
La sapienza (Concorso Internazionale) – film italo-francese diretto da Eugène Green – tradisce le aspettative (per lo meno le nostre). Struttura da bildungsroman, dove l’architetto protagonista e la moglie affrontano una crisi esistenziale e creativa intraprendendo un viaggio sulle tracce di due illustri predecessori – Borromini e Bernini – simbolo di due attitudini diverse nei confronti del reale (ovvero pulsioni/emozioni VS razionalità). Durante il viaggio faranno incontri trasformativi per tutti i protagonisti. Due afflati sembrano guidare il regista, quello poetico e quello formale, persi entrambi in un racconto troppo didascalico e affidato, si potrebbe dire “appeso”, a una recitazione volutamente senza intonazioni né “colori” psicologici, per volontà del regista di ridare “la luce” alla gente che l’ha persa: se in passato era il ruolo dell’architettura, ora lo è del cinema (sempre secondo Green). Sintesi stilistica e poetica che parte bene ma si perde nei meandri dell’autoreferenzialità e dell’eccesso di controllo formale che abbatte l’immaginazione, il desiderio di immedesimazione e l’emozione. Peccato perché alcuni spunti potevano essere interessanti, se non fossero stati così “ostentati”: la separazione, l’elaborazione del lutto, la proiezione delle proprie paure sugli esseri amati, la nevrosi, la malattia la guarigione. La ricerca dell’essenza. La sapienza alle origini della luce e dell’amore.
Ventos de Agosto (august winds), Brasile, 2014, (Concorso Internazionale, menzione speciale) di Gabriel Mascaro. Shirley si stabilisce in una piccola località per prendersi cura della nonna. Guida il trattore in una piantagione di palme da cocco e ha una relazione con Jeison. Ad agosto arriva un giovane metereologo che mentre registrava il vento viene inghiottito dalla marea. È il giovane Jeison che ritrova il corpo e che attorno ad esso si confronta con la morte, la memoria (la morte della madre) e la natura ineluttabile. Il regista crea l’immagine di qualcosa che non può essere visto: il vento. Bella la metafora dell’uomo che lo registra. Metafora dell’impossibilità di trattenere ciò che per natura è mutevole, imprevedibile e perennemente in movimento, come la vita. Il mare (e quindi la natura) custodisce il mistero. La natura è qualcosa di più grande e imperscrutabile, alle cui leggi l’uomo può soltanto adattarsi. Una fotografia estremamente raffinata, ma una sceneggiatura che a tratti fatica a reggere il lungometraggio.
Songs from the North, di Soon-mi YOO (Stati Uniti, Corea del Sud, Portogallo, 2014, Cineasti del Presente, Pardo per la migliore opera prima) è un film coraggioso, frutto del montaggio di spezzoni di pellicole, canzoni popolari, footage della tv, news del TG, film “epici” (propaganda di regime) della Corea del Nord, tra i paesi più blindati al mondo con minor rispetto dei diritti umani. La dittatura militare (ereditaria) di Kim Il-sung, morto nel 1994 e da allora presidente eterno della Repubblica Popolare Democratica di Corea, inventa un’epica della nazione da lui fondata basata su canti e film per propaganda di regime. Ne esce la sconcertante foto di un paese che vive ancora nella nostalgia edipica, una tristezza collettiva che non riesce a sanare psicologicamente la perdita del leader. Si racconta una nazione ossessionata dal pericolo della riunificazione, sotto il peso di miti nazionalistici creati dalla metà del XX secolo da una dittatura militare; il film è uno sguardo lucido e critico che svela in modo non troppo esplicito i limiti e le condizioni geografiche e politiche che hanno bloccato un intero popolo e ha il pregio di mostrare qualcosa che altrimenti sarebbe impossibile per noi vedere.
Degno di nota il corto Thirst di Rachel McDonald, con Melanie Griffith. Basato su una storia vera, mostra, grazie a un uso raffinato dell’immagine, uno spaccato di realtà: un bar squallido che potrebbe essere in qualunque periferia del mondo, frequentato da gente di ogni tipo, in cui inaspettatamente il protagonista della storia, un aspirante suicida, trova la possibilità per una nuova esistenza e comprende il valore dell’essere utili agli altri. Il tutto senza scadere nel melò, grazie a dialoghi brillanti e una velata ironia.
Chiudendo in leggerezza, abbiamo visto in serata Love Island (Croazia/Germania/Svizzera,Bosnia Erzegovina), regia di Jazmila Zbanic, che doveva essere proiettato in piazza ma trasferito all’auditorium a causa del maltempo; migliaia di persone in coda sotto la pioggia, noi comprese. Liliane e suo marito trascorrono una vacanza in un villaggio turistico su un’isola croata. L’incontro casuale con una ex amante di lei, innescherà una serie di eventi a lieto fine. Una commedia intelligente che fa riflettere con la dovuta ironia sull’identità sessuale, la monogamia, la bisessualità, la libertà dentro e fuori la cosiddetta “coppia”. Leggero, divertente, curato. Mostra, anche con un certo sarcasmo e leggerezza, il mondo dei villaggi turistici, delle vacanze preconfezionate – vedi balli di gruppo, gare di canto ecc.
Prima della proiezione è salita sul palco Mia Farrow, che ha ricevuto il Leopard Club Award. Accolta dal pubblico con grande calore, ha ricambiato con gratitudine e risposto alle domande sui tanti registi con i quali ha lavorato, tra cui il giovane Gondry.
Cristina Trivellin, Eleonora Roaro
67.ma edizione del Festival del film di Locarno (6-16 agosto 2014)
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