Il 21 gennaio è uscito al cinema The Pills – Sempre meglio che lavorare, film diretto da Luca Vecchi e scritto dagli stessi The Pills, di cui Vecchi è membro storico. Un anno fa le pubblicazioni della loro webserie vengono interrotte; qualche rumor iniziale e poi seguono i comunicati ufficiali: i The Pills stanno lavorando ad un lungometraggio con una importante casa di produzione, la stessa del campione di incassi 2016 Quo Vado?, la Taodue di Pietro Valsecchi. Lo scorso novembre inizia a circolare il primo teaser e con l’anno nuovo il film è finalmente nelle sale. Una settimana e poi praticamente sparisce dai cinema, succeduto da uno strascico di polemiche -sollevate da botta e risposta “social” (via Facebook) con in prima fila Selvaggia Lucarelli e lo stesso Pietro Valsecchi- e poco dibattito sul significato di questo prodotto nel panorama culturale italiano.
Faccio un passo indietro. I The Pills nascono a Roma nel 2011; si chiamano Luigi Di Capua, Matteo Corradini e Luca Vecchi; scrivono, girano, pubblicano video su YouTube all’interno del canale The Pills che oggi conta oltre 130mila followers e dove si possono (ri)vedere le 2 serie complete (24 episodi la prima e 11 la seconda), oltre a svariate altre clips.
Le storie che raccontano sono storie di ragazzi, studenti universitari che hanno problemi di soldi, amore, amicizia, messe in scena con uno stile pop e colorito: parlano di Erasmus, di amore ai tempi di Facebook, di come trovare i soldi per pagare le bollette; usano espressioni come “Mi sono accollato a ‘sta pischella[…]”, in puro slang di Roma Sud che non li abbandona nella scrittura del lungometraggio. Il tutto in un’ottica di satira che prende in giro usi e costumi della generazione di “bamboccioni”. Le clips funzionano, raccolgono un discreto successo e hanno un loro seguito. I The Pills dal 2011 ad oggi sono cresciuti e hanno fatto notevoli progressi, nello stile di recitazione, nelle scelte di regia e nella messa in scena più solide e strutturate. Come loro, anche il pubblico è cresciuto: il linguaggio della rete è rapido, è vicino ai problemi social che affliggono i giovani; si è formato un pubblico per questo tipo di linguaggio e le produzioni di webseries sono sempre più frequenti. Uscendo dalla serialità spontanea di chi con una webcam si riprende attorno al tavolo di cucina, voglio citare i casi di Status e di Una mamma imperfetta: la prima è una webserie in 10 episodi prodotta da Milano Film Festival e Banca Prossima in collaborazione con MyMovies, mentre la seconda, diretta da Ivan Cotroneo, è prodotta da Rai Fiction e RCS. Ad investire in questo tipo di prodotto non ci sono più solo il tempo e la passione (oltre ad estro e creatività) di un gruppo di amici, ma anche enti e aziende che comprendono come questo genere risponde a nuove esigenze del pubblico, al pari dei feuilleton ottocenteschi e dei cineromanzi degli anni ’40.
Nulla di nuovo sotto il sole, mi verrebbe da dire: un paio di secoli fa si chiamavano romanzi d’appendice, oggi si chiamano webseries. Questa popolarità non depotenzia la genialità e l’estro con cui gli autori hanno saputo modellare la loro creazione e i The Pills sono un valido esempio di come il linguaggio seriale trasposto nel web abbia molto, e ancora molto da comunicare: il tempo di una clip è perfetto per la satira, che è rapida, mordace; tradimenti, droghe, lavori precari rientrano perfettamente nel contesto di fruizione e per il segmento di riferimento; lo slang che utilizzano è tipico della satira (sempre stata un genere poco esportabile, tanto che commedie campione di incasso in altri paesi difficilmente riscuotono il medesimo successo). Ma i The Pills hanno fatto il salto al lungometraggio: un passaggio necessario? Obbligato? Per dove?
The Pills – Sempre meglio che lavorare è una storia semplice e onesta: da piccoli Luca, Luigi e Matteo giurano a se stessi che non avrebbero mai lavorato. I bimbi crescono e si trovano a condividere la medesima casa, coinquilini di appartamento e problemi: Luigi è incapace di accettare la dimensione di adulto e le responsabilità correlate; Matteo deve elaborare l’abbandono paterno che, alla veneranda età della pensione, lascia la famiglia per trasferirsi a Berlino e intraprendere una carriera artistica; dulcis in fundo Luca che, innamorato di una ragazza, cede alla tentazione del lavoro al punto di una totale assuefazione. Come nelle fiction e nella loro serie, la casa (e il tavolo su cui bevono il caffè) è il fulcro dello spazio narrativo: da e verso questo spazio si muovono gli sketch del racconto. Le scene in sé sono ben confezionate: strizzano l’occhio a classici cinematografici, citando Ghost e Le Iene, e mostrano senza arroganza i timori e le paure dei young adults. Quello che non funziona è che spesso perdono di fluidità e il racconto finisce per chiudersi su se stesso, spegnendo il fuoco dell’intuizione geniale. La storia incede e le vicissitudini della vita li portano a confrontarsi, rimpiangere, rinnegare e ritornare alla promessa fatta.
Il film non è piaciuto al pubblico della sala, non è lontanamente paragonabile al successo di Quo Vado? (possiamo dire: The Pills 1 VS Checco Zalone 100) e se ne intravedono chiaramente i difetti: l’abuso di scelte registiche (come il citazionismo), l’esasperazione di un certo tipo di linguaggio (il romano, appunto) e la rigidità dello schema narrativo reiterato, a volte fino al fastidio. Troppe le aspettative riposte e tanta la delusione da chi aveva catturato e stregato sul web. Questo fa riflettere ancora una volta sulle possibilità del web, sul linguaggio che lì nasce e che lì funziona, sui passaggi trans-mediali. Si potrebbe iniziare a fare ipotesi sul futuro di web-registi che, come a suo tempo Honoré de Balzac e Dumas, iniziano a lavorare con la serialità per poi lasciare all’umanità capolavori senza tempo. Augurando a Luca, Matteo e Luigi una tale carriera, penso comunque che si sia parlato poco dell’opera in sé a favore di un riduttivo botta e risposta su Facebook. Peccato.
Elena Cappelletti
D’ARS anno 56/n. 222/primavera 2016
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