Gli studi culturali usano l’espressione “Iconic Turn” per spiegare lo statuto immaginario della società contemporanea. Un concetto che supera l’idea della rivoluzione delle immagini originata dall’incontro fra la metropoli otto-novecentesca e i media di massa per riferirsi piuttosto all’emergenza di Internet come “magazzino” del digitale e del visuale. La svolta iconica non riguarda perciò soltanto la crescente importanza dei fenomeni visuali ma conduce verso una nuova consapevolezza epistemologica delle immagini nello studio della cultura. Una consapevolezza che porta necessariamente a interrogarsi sull’esperienza individuale e collettiva connessa alle e connessa con le immagini nel contesto di quella che ci stiamo abituando a chiamare (Social) Network Society.
Ed è proprio nell’urgenza di riflettere su caratteristiche, modalità e conseguenze del rapporto che tutti, volenti o nolenti, intratteniamo con le immagini nell’era digitale, a cominciare da quelle di noi stessi, che possiamo cogliere il significato della ricerca The Blink Experiment sviluppata dai due artisti visivi e performer Gabriel Da Costa e Luca Carboni. Il progetto, avviato nel 2013, si pone l’obiettivo di pervenire alla creazione di The Anatomy of Future Nostalgia, opera incentrata sull’idea di un museo del futuro in cui il passato da conservare sarà costituito dal presente di oggi.
Il progetto presenta un carattere multidisciplinare che attraversa diversi formati – videoinstallazioni, esposizioni, performance – e ha trovato una prima sintesi nello spettacolo teatrale nato in residenza ai Teatri di Vita di Bologna e di recente debutto. Lo spettacolo si colloca organicamente nel complesso di quelle esperienze ibride, contaminate per linguaggi ed estetiche, che caratterizzano le espressioni più interessanti dei teatri di nuova generazione. Una ricerca estetica e di forma che implica e porta dentro i suoi stessi contenuti.
The Blink Experiment, infatti, si caratterizza prima di tutto come un lavoro che usa l’immagine digitale per riflettere su questa stessa immagine e sulle sue molteplici implicazioni. Una di queste riguarda la ridefinizione del rapporto fra pubblico e privato derivante dalla continuità offline/online e che sembra essere il presupposto da cui origina la ricerca di Da Costa e Carboni. La scena, non a caso, si divide in due parti: una metà è occupata da una stanzetta chiusa da pareti in velatino che, come si capisce da subito, funzionano da schermi, e che delimita uno spazio interno e privato mentre l’altra metà è usata come spazio esterno e pubblico. Questi spazi sono continuamente attraversati dagli attori e sfondati dalle immagini, tanto che non esiste mai solo un dentro o solo un fuori perché tutta la scena è concepita di per sé come metafora del collasso dei contesti pubblico e privato.
In accordo con le estetiche schermiche e le logiche del digitale lo spettacolo procede per frammenti, senza linearità narrativa, presentando una serie di sketch in cui il ritmo scenico è scandito dalla musica e dai suoni, procede fra tempi serratissimi e momenti più lenti, utili per tenere il filo di un ragionamento complesso, per mantenere attiva la relazione con lo spettatore, continuamente interpellato anche in chiave meta-teatrale. Inoltre l’uso di immagini fotografiche, video registrate oppure riprese in diretta, così come la costruzione per quadri-schermo della scena allestita nella metà “pubblica” come un set fotografico, satura percettivamente l’ambiente così da rendere visibili e palpabili i caratteri della video-cultura digitale.
All’inizio Gabriel chatta con utente in remoto e con cui non avrà poi più niente a che fare. In un’altra scena Gabriel e Luca sono due teenager che iniziano un gioco pericoloso. Luca accetta di farsi riprendere da Gabriel e accetta anche di entrare in intimità con lui che però, sul più bello, ferma tutto e lo minaccia di postare e rendere virali le immagini. Poi è la volta di Kevin, personaggio inventato dallo YouTuber Simone che viene intervistato da un improbabile conduttore di un reality che vuole sapere chi sia il “vero” Simone, quanto della sua identità si nasconda dietro quella del personaggio fittizio salvo poi ricevere come risposta un semplice “faccio quello che fanno tutti”. Si tratta perciò di capire come siamo e come ci comportiamo tutti davanti alla macchina fotografica o a una telecamera. E così Luca “litiga” con Gabriel su una foto che non lo rappresenta, che “lo fa sembrare pieno di sé”, ponendo la questione dell’autenticità e di come la self-presentation debba sempre di più fare i conti con l’immagine che gli altri hanno di noi soprattutto quando la sua circolazione in rete o il fatto che sia conservata in un server in California la virtualizza, espropriandoci dal possesso esclusivo della nostra immagine. Ma nello stesso tempo anche noi esponiamo volontariamente la nostra intimità ed entriamo in quella degli altri, siamo fruitori e manipolatori di immagini proprie e altrui, collaboriamo alla loro circolazione. Siamo soggetti e oggetti della svolta iconica operata dal digitale. Non solo utilizzatori dei media, quindi, ma parti integranti e attive delle loro logiche, in accordo con l’idea del farsi-media che connota l’esperienza contemporanea oggetto del lavoro di Da Costa e Carboni.
Così come succede a Julia Del Moro, presunta madre assassina, che collegata su Skype con David negozia i modi per riabilitare la sua immagine pubblica. Poi Gabriel disegna con lo spray rosso un grosso animale rievocando la nascita delle immagini 27.000 anni fa e l’origine antica del bisogno umano di rappresentare per dare ordine all’esperienza. Nella scena successiva i due attori raccontano di un amore iniziato grazie a una fotografia, dal ritratto che uno vuole fare dell’altro. Scorrono frammenti video dove li vediamo insieme, nel loro privato, durante una festa a due, mentre allo stesso tempo una loro foto resa pubblica li trasforma “nella coppia della famosa fotografia”.
E si arriva al rapporto immagine-sguardo. Altro tema cruciale affrontato prima coinvolgendo il pubblico in uno scambio reciproco di sguardi, un modo per introdurre al sentimento di sentirsi osservati, e dopo con l’allestimento di una specie di laboratorio in cui due ricercatori indagano la situazione in cui un individuo viene osservato – miniaturizzandola attraverso un piccolo plastico ripreso e proiettato – chiedendosi se il dispositivo agisca sulla propria rappresentazione ma chiedendosi anche cosa resti di un individuo dopo la sua morte. La questione allora diventa quella del rapporto fra ricordi personali e memoria per i posteri. “Cosa metteremo sui piedistalli di un museo del futuro per rappresentarci”? Al momento la risposta sembra risiedere nel flusso di immagini che continuano a scorrere in scena – video virali famosi: dai vari gattini a Susan Boyle fino alla vasta gamma di freak che troviamo su YouTube – ma anche frammenti di citazioni di Zuckerberg, Barak Obama o dichiarazioni strampalate della banda Bling Ring in un overload di stimoli percettivi che dà prova della tossicità della nostra esperienza mediata. Allora si tratta di capire come i frammenti della nostra memoria, derivanti non solo dalle esperienze di prima mano ma dai vissuti mediali (l’uomo che cade da World Trade Center o Leonardo Di Caprio e Kate Winslet sulla prua del Titanic), abbiamo bisogno ogni tanto di un po’ di “giardinaggio”, come succede quando si ripuliscono gli scaffali delle librerie ci raccontano in un altro episodio dello spettacolo. Come dire: identità, memoria e relazioni cambiano e forse quello che serve è un po’ di selezione e di diritto all’oblio. Anche se dimenticare fa paura.
Una ricerca sviluppata da Gabriel Da Costa e Luca Carboni
Collaborazione alla drammaturgia Tatjana Pessoa
Con la partecipazione di Giulia Valenti
Produzione SAVERIA P. (BOLOGNA) e COLLECTIF NOVAE (Bruxelles)
Con il sostegno di ERT (Emilia Romagna Teatro) e TEATRO PRESENTE (Crevalcore)
Primo spettatore Alessandro Marinuzzi
Foto: Antonio Privitera
Spettacolo realizzato in residenza a Teatri di Vita nell’ambito del progetto interregionale di Residenze Artistiche, con il contributo della Regione Emilia Romagna e del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
Laura Gemini
D’ARS anno 56/n. 222/primavera 2016
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