Al 32mo Torino Film Festival vince Mange tes morts, capitolo di una saga famigliare che osserva da vicino la famiglia gipsy dei Dorkel e lavora sul tema della custodia delle proprie radici e tradizioni. In carcere per un furto commesso anni prima, Fred torna dalla madre e dai fratellastri Maikel e Jason; assieme a loro e al cugino Moïse, quella stessa notte Fred organizza un furto di rame in un vicino deposito: la sua è la vita di un gipsy, di un ladro, un passato che non può rinnegare ma anzi onorare. Il regista Jean-Charles Hue descrive il sistema di valori della comunità nomade che vive in una zona rurale a nord di Parigi e mostra dinamiche lontane dalla società occidentale usando una scrittura frastagliata che stanca e fatica a coinvolgere.
Le automobili che sgommano nella polvere, l’inseguimento notturno della polizia, il furto e lo scontro-affronto tra bande fuori dalla discoteca sono alcuni degli elementi che citano generi come il poliziesco, il noir e il western, usati per alimentare il côté più finzionale del film. Questo versante è trattenuto al reale attraverso tecniche derivate dal documentario, dal cinéma vérité: camera ipercinetica che segue da vicino i protagonisti, reiterazione di parole, linguaggio sporco e molto vicino al parlato, personaggi reali, perché i Dorkel esistono davvero e il regista li ha conosciuti nell’Oise iniziando a frequentarli nel 2003. Due modelli di cinema che si incontrano, quasi un docu-drama: la loro congiuntura però non aiuta la storia, perché ci si sente presi in trappola, privati degli strumenti per affrontare il sistema e decifrare il codice. Rimango così segregata, realmente e metaforicamente, nell’automobile di Fred e con lui sfreccio nella lunga sequenza finale, prima per cercare di commettere il furto, poi per scappare e infine per dimostrare di essere fedeli a se stessi. Ma in questo essere così vicini ci si sente anche molto lontani: più che trovarsi ci si perde…
Onorare la propria storia, conoscere se stessi e farsi riconoscere di fronte alle autorità. Il titolo Mange tes morts fa riferimento al peggior insulto che un gipsy può ricevere perché è la negazione, il rifiuto dei propri antenati attraverso il “mangiare i propri cadaveri”. Da sempre il motto “conosci te stesso” è il monito per capire ciò che siamo, ciò che possiamo e fin dove possiamo spingerci; sempre fedeli a se stessi. Forse a spiazzare più di tutto è il dato di fatto, perché Fred conosce se stesso (lo dichiara più volte) e si fa riconoscere (di fronte alla polizia Fred ribadirà la propria identità), ma il regista, a dispetto di condurre lo spettatore in un percorso che arriva in questo terreno, lo mostra come dato di fatto.
L’altro sguardo sulla vicenda è quello del fratellastro Jason. Il film si apre su una cerimonia e da subito sappiamo che Jason dovrà essere battezzato: il rito, citato all’inizio del film e usato come conclusione, è espediente metaforico per spalleggiare il percorso fatto da Fred e che ora deve passare all’ultimo della famiglia come passaggio di testimone.
Tutto passa e avviene all’esterno e non si riesce ad entrare nei personaggi, nei loro pensieri; sono scarsi i dialoghi, criptiche alcune scene e scontate altre. L’intento antropologico di Jean-Charles Hue non riluce, purtroppo, e il successo festivaliero del film, che aveva già vinto il premio Jean Vigo a Cannes 2014, è spiegabile attraverso l’autocompiacimento di certa critica. Un film molto cerebrale e poco emozionale.
(Vai all’articolo sugli altri premi del festival)
Elena Cappelletti