Tra le proposte del cartellone del Teatro Napoli Festival Italia 2017 abbiamo scelto Le Serve, Anime Scalze e il capolavoro del genio irriverente Jan Fabre, Belgian Rules. Ecco un assaggio di quanto andato in scena.
“Napoli è come una Comédie-Française, ma all’aria aperta” ci aveva detto Toni Servillo in occasione di una sua venuta a Verona per il Festival della Bellezza, allungando la lista delle definizioni di questa città in cui “se sei qualcuno qui diventi nessuno”. Perché la città ti inghiotte nelle sue mille città, come essere sul Bosforo. E allora anche un Teatro Napoli Festival, a direzione Ruggero Cappuccio, gode della capillarità come miglior risposta alla Napoli policentrica. Quest’anno non si scherza e il festival in città appare, si vede, ben comunicato e segnalato nei suoi eventi collaterali.
Più difficile è scegliere e godere dei soli spettacoli senza la possibilità di illuminanti incontri sul teatro, i suoi interpreti e la sua ricerca.
A lume di naso e dribblando con gioia i clamori di Angelica Liddell e dell’istituzionale Luca Barbareschi (ma in cartellone la tradizione viaggiava sotto i labari di Laura Curino, i soliti Ascanio Celestini, Alfonso Santagata, Licia Maglietta e Fabrizio Gifuni), siamo andati a vederci l’ennesima rilettura partenopea di un classico: Le Serve di Genet.
“Le attrici non devono salire in scena col loro naturale erotismo, imitare le donne che si vedono sullo schermo. L’erotismo personale, in teatro, degrada la rappresentazione. Le serve è una favola. Bisogna a un tempo crederci e rifiutarsi di crederci, ma poiché ci si possa credere occorre che le attrici recitino non secondo un modulo realistico” scriveva Jean Genet ad introduzione del suo testo per suggerire alle attrici indicazione su come recitare in questa commedia. La traduzione è di Giorgio Caproni, lo stesso a cui Antonio Capuano si è affidato per dirigere la sua personalissima versione. Ma delle indicazioni nemmeno l’ombra, se si esclude che il loro ruolo possa essere quella voce fuori campo così pirandelliana da sembrare il naturale omaggio alla compagnia che ha prodotto il lavoro.
La tragedia diventa farsa, il messaggio politico di Genet s’impasta di terra napoletana fino a rischiare il soffocamento per eccesso di grottesco. Della rivalsa servo-padrone rimane un romantica utopia semplicistica e affoga nell’applauso la potenza del recitato di Gea Martire e Teresa Saponangelo, che quando accelerano sul pedale del vernacolo riescono a catturare l’attenzione di un pubblico piuttosto indisciplinato (ritardi, chiacchiere, richiami dai palchetti come fossimo in un vicolo partenopeo). La favola perde memoria delle indicazioni iniziali e diventa una danza liberatoria dove le attrici, in nome di tutte le donne intrappolate nei ruoli, da Medea in poi, ballano liberandosi proprio di quel corpo che aveva dato spessore al loro sincero recitato.
Del copro non si libera Jan Fabre, fiore all’occhiello del cartellone del Teatro Napoli Festival. Cercare le citazioni all’arte in Belgian Rules è un divertente quanto inutile esercizio di stile articolato in 14 stazioni, tante quante quelle di una via crucis. L’occhio scaltro coglie l’arte di Rubens o Van Der Weyden, ma sono false piste di uno Stationendrama: come gli scheletri indossati dai quindici performer che alludono a Marina Abramovic, o l’atletismo dei suoi attori che irride lo “sforzo artistico” di Matthew Barney. In questa masturbazione mentale (e la metafora non è casuale considerando l’orgia fisica della scena) godono i piccioni usciti direttamente da un quadro di Max Ernst, la stessa Pietà di Fabre (amata dalla Biennale di Sgarbi) e i suoi gatti volanti.
Ma Jan Fabre, che a Napoli espone pure dei cervelli umani in silicone alla Tresorio Gallery, non è venuto al Teatro Napoli Festival per illustrare in quattro ore di spettacolo la sua memoria artistica. Il suo è un discorso ancora una volta sulla bellezza. Dopo aver perlustrato il corpo, l’esercito guidato da Annabelle Chambon e Cédric Charron, mescola il crogiolo alchemico nella “nigredo” di birra e cioccolato, carne e desiderio. Altro che Belgio e racconto di un Paese bizzarro! Il compromesso instabile di tradizioni e contraddizioni è un carnevale per ipocriti, un nave dei folli. Il ritorno all’ordine di quelle “regole” del titolo è uno sguaiato corteo per majorette che più assomiglia ad una Parade.
La bellezza è ipocrisia (cattolica) o kitsch che nutre le pance molli della crapula e del vizio. Perché il bello è indicibile. La bellezza è una maschera di Ensor che abbraccia la morte, protuberanza della bruttura, quella degli oli di Bruegel o delle patatine fritte (guai a chiamarle French fries) poco importa.
Al Teatro Napoli Festival ci ha colpito anche Anime Scalze, per come il testo poetico di Maram Al Masri sia stato mosso dalla drammaturgia di Danilo Macrì. La messa in scena e la voce narrante era di Sara Bertelà, la voce recitante, pianoforte, cajon di Elisabetta Mazzullo e la cantante era Mirna Kassis. Il meraviglioso Palazzo Cellamare è complice, con la sua scalinata ridondante, di una messa in scena dinamica e orchestrata su più stazioni (scalini). Abbiamo considerato una piacevole rarità la movimentazione di questo reading, teso sul filo del femminismo, dentro le pieghe di un incontro tra la donna e l’Oriente. Quando la poesia degli spazi dialoga con quella del testo fioriscono parole semplici, fragili, come le donne raccontate qui, che siano d’Oriente o di Occidente.
Simone Azzoni