London. La Turbine Hall è una sala lunga 155 metri, larga 35 e alta come un edificio di sette piani. Si chiama così perché, prima di diventare il cuore della Tate Modern, accoglieva le turbine della centrale elettrica di Bankside, riva sud del Tamigi. Dal 2000, i suoi 3400 m2 ospitano una volta l’anno l’installazione di un artista all’interno del progetto Unilever Series. A ogni cambio di inquilino, il gigantesco androne muta aspetto: Rachel Whiteread l’ha riempito con 14mila scatole di plastica; Ai Weiwei, con 100 milioni di semi di girasole; Louise Bourgeois l’ha trasformato in una cuccia per la sua adorata Maman; Olafur Eliasson, in un enorme solarium. Tacita Dean, padrona di casa fino all’11 marzo (quando dovrà traslocare per lasciare il posto a Tino Sehgal), l’ha arredata come l’ambiente in cui si trova più a suo agio: una sala cinematografica.
FILM. Bolle di sapone. Un’arancia. Il lucernario della Turbine Hall. Rosso. Giallo. Blu. Verde. Un mazzetto di funghi. Una roccia. La cima di un montagna. La cima del Monte Analogo. Un occhio che spia da un buco. Scale mobili. Una fontana. Una cascata. Acqua. Il sole riflesso nell’acqua. Foglie che galleggiano. Onde. Una lumaca sull’erba. Una ciminiera che butta fumo. Nebbia. Di nuovo le bolle di sapone. La proiezione, muta, dura 11 minuti e si ripete, in loop, per tutta la giornata. L’unico suono viene dallo scorrere della pellicola nel proiettore, nascosto nel buio della sala. Davanti alle vetrate della parete est c’è lo schermo, verticale: una lastra di gesso alta tredici metri e spessa uno. Lo chiamano “The Monolith”, il Monolite, come quello di 2001: Odissea nello spazio.
Making of. Tacita Dean è un’artigiana del filmmaking. Segue la lavorazione dei suoi video da quando inserisce la pellicola nella macchina da presa, alla stampa delle copie da distribuzione. Gira in interni e in esterni, in bianco e nero e a colori. La macchina è assicurata a un treppiede, la ripresa è fissa. Finito di girare, manda il negativo al Soho Film Laboratory di Londra, che le restituisce la copia lavoro su cui effettuare il montaggio. Questa è la fase più delicata e intima del processo. Chiusa nel suo studio di Berlino, in solitudine, taglia strisce di fotogrammi e le riassembla col nastro adesivo. Quando ha il final cut, vola a Londra, dove la copia lavoro viene usata come modello per il taglio sul negativo originale, dal quale verrà stampata la copia definitiva, pronta per la distribuzione. Gli effetti visivi sono realizzati con le tecniche classiche del cinema delle origini: sovrimpressione, mascherini, matte painting, colorazione della pellicola. Tacita Dean lavora in analogico, su pellicola 16 mm, un formato oggi minore nel mercato cinematografico, ma caro a molti videoartisti. Non è una questione di nostalgia, un tentativo di resistenza contro l’inarrestabile avanzata del digitale. È una scelta. “Digital is not better than analogue, but different”1.
Behind the scenes. Nel febbraio 2011, alle vigilia di un’importante personale al MuMoK di Vienna e sei mesi prima della Tate, il Soho Film Laboratory, l’ultimo rimasto nel Regno Unito a sviluppare pellicole 16 mm, ha comunicato ai suoi clienti che d’ora in avanti si sarebbe dedicato unicamente al 35 mm, il formato usato nelle grandi produzioni cinematografiche (e quindi più redditizio). Il laboratorio, ora Deluxe Soho, gestiva il girato di qualcosa come 170 artisti, inglesi e non. Ma i vertici della Deluxe, la casa madre, hanno stabilito che il 16 mm non serve più all’industria cinematografica, perché inadatto ai lungometraggi milionari di Hollywood. La videoarte, non rientrando nella categoria, è sacrificabile. Accusato il colpo, Tacita Dean non si è però scoraggiata. Dopo aver detto la sua dalle pagine del Guardian2, si è rimboccata le maniche per capire come affrontare il suo prossimo ingresso nella Turbine Hall. È passata al 35 mm e ha girato un film sperimentale, a un tempo innovativo e classico, un vero e proprio atto d’amore per il cinema su celluloide. Non a caso l’ha intitolato FILM. Per rimarcare il suo affetto per la pellicola, ha ruotato di 90 gradi lo schermo di proiezione, passando dal classico paesaggio orizzontale, al formato verticale da ritratto. Usando un mascherino, ha inserito ai lati del video due strisce raffiguranti i fori di trascinamento della pellicola, trasformando il Monolite in un gigantesco fotogramma. Il montaggio e gli effetti visivi ricordano il cinema d’avanguardia degli anni Venti del Novecento, in particolare il cinema astratto, dove la narrazione lasciava il posto a una sequenza di immagini pure. In FILM, la Turbine Hall è a un tempo set e soggetto, luogo reale e illusione. Una fotografia della parete orientale è usata per gran parte del filmato come sfondo, sul quale scorrono oggetti ambigui e misteriosi. “It’s all about metaphor”. Il cinema è metafora.
Le Mont Analogue. Ovvero: Il Monte Analogo. Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche3, racconto incompiuto di René Daumal, pubblicato postumo nel 1952. La montagna (immaginaria) del titolo deve il proprio nome al fatto che l’ascensione alla vetta è affine all’ascesa spirituale degli scalatori che la affrontano. Già modello dello psichedelico lungometraggio La montagna sacra (1973) di Alejandro Jodorowsky, Tacita Dean cita il romanzo di Daumal tra le fonti di ispirazione di FILM, in cui il Monte Analogo appare come una roccia aguzza che sbuca da una coltre di nubi. L’immagine è altresì un richiamo alla famosa sigla d’apertura dei film della Paramount, messa online da decine di utenti di YouTube, che di analogo o analogico ha ben poco. Curiosamente, però, è proprio tra le sue pagine che ritroviamo anche FILM, sottoforma di filmato amatoriale, e digitale, girato dai turisti in visita alla Tate con smartphone alla mano.
Stefano Ferrari
D’ARS year 52/nr 209/spring2012
[1] Le citazioni nel testo sono tratte da http://tacitadean.tate.org.uk/.
[2] http://www.guardian.co.uk/artanddesign/2011/feb/22/tacita-dean-16mm-film.
[3] René Daumal, Il Monte Analogo, Milano, Adelphi, 1968.