Ci si aspettava molto da Romeo Castellucci e il suo Go Down Moses in anteprima al VIE Festival di Modena venerdì 23 ottobre. Forse quel velatino sulla quarta parete, non solo l’offuscamento della nostra visione su ciò che accade in scena. Il problema dell’immagine e del suo rapporto con la visione e la verità è da sempre un enigma per la Socìetas Raffaello Sanzio. Vuoi come iconoclastia e provocazione (sul concetto di volto nel figlio di Dio), vuoi come citazione da piegare alle leggi della scena i classici della storia dell’arte (Hey Girl!). Insomma anche Go down moses indaga sul rapporto tra raffigurazione e visione.
Qualcosa non ci arriva del tutto, qualcosa che accade sul palco sfugge all’associazione della logica. Non a caso il Mosè biblico, oltre a guidare un popolo smarrito (noi?) indica loro gli idoli veri ponendosi all’origine stessa dell’arte.
Tutto questo c’è nello spettacolo visto al Teatro Comunale di Modena ma le intenzioni diventano didascalia che recuperano vecchi linguaggi ammorbidendone e smussandone la forza. Le immagini mille volte citate ora si perdono in un liquido amniotico in cui emergono ricordi surrealisti (Étant donnés di Duchamp) e realisti (l’Origine del mondo).
Ci sono ancora i liquidi, soprattutto sanguigni che invadono le scene algide come nel ciclo Tragedia Endogonidia, c’è la maestosità barocca di lentezze infinite, che rende il destino umano un assoluto doloroso, e poi la scansione per quadri che si beano della loro perfezione formale. Ma questa volta Castellucci cede più di altre alla narrazione e alcune metafore rischiano di essere ridondanti. La narrazione è quella che confronta l’abbandono materno di Mosè con gli infanticidi di oggi, le madri che lasciano i figli nei cassonetti sopportandone poi il dolore dell’assenza. Così una donna sanguinolenta in un bagno iperrealista è poi interrogata da un investigatore e con una tac (usata come portale alla Cronache di Narnia) penetrerà in un mondo primitivo là dove le donne lasciarono sulle superfici delle caverne le prime impronte di un arte che sarebbe diventata figurativa.
Questi tratti recitati sono lunghi, lenti e lasciano emergere le fatiche dei dialoghi, deboli rispetto alla potenza e alla rapidità di un’immagine. La musica sostiene ad esempio l’ultima scena che altrimenti sarebbe la versione presepiale dell’incipit di 2001 Odiseea nello spazio. Ci piacerebbe che fosse la caverna di Platone in cui appunto le immagini vere si distinguono dalle false. Ma rocce di sovrabbondante finzione sovrastano un’umanità agli albori che è allo stesso tempo nell’anello dell’eterna ripetizione del ciclo vita-morte, perché anche lì si seppelliscono figli.
Si diceva della simbologia: altissima e colta la citazione del primo quadro ai fregi del Partenone e ai bassorilievi dell’arte greco-romana. Come dire che nella noia dello sguardo che si consuma in una galleria vuota si ripetono le stesse forme e le stesse posture, gli stessi pattern della cultura visiva. Un inizio potente, alla Raffaello Sanzio. Sotto scorre quella tensione, quell’apertura alla violenza sorda, cieca e ineluttabile che poi nel proseguo dello spettacolo scompare del tutto. Il sangue della partoriente è eccessivo, il tornio elettrico dal rumore assordante è inspiegabile come pure il leprotto di Dürer e quel finale che tarda a venire va oltre l’“SOS” scritto sul velatino, per spiegarlo dove non sarebbe necessario. Bastava lasciarci liberi, a guardare quella scritta apposta sul filtro lattiginoso della visione, perché comunque, come ci aveva detto Castellucci, “all’immagine non si sfugge, nemmeno quando vogliamo cancellarla”.
Simone Azzoni