“Il muro, si sa, attira la scrittura”. Le parole del semiologo francese Roland Barthes ci aiutano a introdurre una delle pratiche più tipiche e primordiali dell’uomo, generatore – a iniziare dalle millenarie Lascaux e Altamira sino alla grande stagione del Muralismo messicano degli anni Venti del XX secolo – di un repertorio di segni parietali con diversa complessità di forma e significato, ma egualmente espressione di un fondamentale bisogno di decorazione, comunicazione, racconto e registrazione. La Street art non è che un nuovo brano di questa istintiva e appassionante vicenda umana.
Divenuta oggi pratica autonoma, la Street art trova la sua linfa generativa in quell’humus di segni carichi di energia trasgressiva che impregnano i muri delle città americane a partire dagli anni Settanta, pratica conosciuta come graffiti-writing o semplicemente writing. Quella delle origini di tale fenomeno è una storia di illegalità e anonimato ma soprattutto la storia di gruppi di ragazzini ribelli – quei terribili “kids” che abitano le periferie più difficili – dove i poveri, gli immigrati e in particolari gruppi etnici come afroamericani e latini vivono segregati in veri e propri ghetti urbani. In particolare, la vicenda si colloca nelle grandi metropoli dell’East Coast, Philadelphia e soprattutto New York, dove le comunità del derelitto Bronx e di alcune aree di Brooklyn iniziano a sprigionare tutta la loro energia e voglia di esistere, narcotizzata dall’esclusione sociale, nell’ambito di alcune attività creative che diventano veicolo di protesta sociale e di diffusione di uno stile di vita. Nasce nei primi anni Settanta la cultura hip-hop, che con la musica (MC’ing o rap), la danza (break-dance), la moda dei vestiti e il gergo parlato, comprende anche il writing. Tuttavia, già alcuni anni prima della nascita dell’hip hop, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, alcuni teenager già portano con sé pennarelli di feltro e con questi lasciano segni e scrivono la propria firma (tag), in metropolitana e sui muri della città, il più delle volte accompagnata dal numero della strada in cui vivono.
Cornbread a Philadelphia, Julio 204, Tracy 168 ed Eva 62 a New York sono solo alcuni esempi dei primi nomi che iniziano a reclamare il proprio spazio tra i manifesti pubblicitari, la segnaletica e altri graffiti che popolano i muri. Tra tutti, colui che riesce per primo ad acquisire risalto mediatico, e quindi a diffondere massicciamente il fenomeno, è il diciassettenne di origine greca Taki 183 (diminutivo di Demetraki, traduzione greca del nome di battesimo Demetrius), a cui il New York Times nel 1971 dedica un articolo, di fatto producendo inconsapevolmente il primo documento scritto sul writing.
Assieme agli aspetti, per alcuni versi catastrofici, dei progetti di rinnovamento urbano, che non fanno che creare dislocazione e aree sempre più marginali, altre ragioni sono state individuate quali possibili catalizzatori del fenomeno. Tra queste: l’emergere nei primi anni Settanta di una crisi economica globale; l’occupazione sempre più intensa nell’America di quegli anni di cartelloni pubblicitari, manifesti, loghi e quant’altro attirasse l’attenzione dei passanti negli spazi pubblici; il potenziarsi di dinamiche di tipo razzista e il rafforzamento del ruolo delle gang delle aree più povere e periferiche. L’insieme di ciò crea una situazione sociale potenzialmente rischiosa; tuttavia il senso di solitudine e pesante frustrazione accusato da molti giovani, invece di sfociare in attività di matrice violenta, si trasforma in energia creativa e voglia di affermare se stessi.
Quello che Taki 183 e tutti i suoi pari vogliono dirci è semplicemente: “io esisto”.
Il writer, figlio della frammentazione e della disarmonia della grande città post-moderna, stritolatrice del tempo e del senso più pieno di umanità, si fa lui stesso metropoli, ne acquisisce la tensione, le modalità incalzanti e l’atteggiamento sprezzante, per inserirsi sottopelle come un virus in costante espansione, che produce un contro-potere comunicativo. La ricetta del sognato successo – nient’altro che l’adattamento della strategia di massificazione dei brand pubblicitari – passa da un cocktail perfetto tra diffusione e notorietà, ovvero bombardamento (bombing) visivo e penetrazione. Ciò si verifica in particolare a New York attraverso l’intricato percorso delle carrozze argentee della metro, nelle aree urbane normalmente poco accessibili per condizione sociale o rivalità tra zone.
Proprio alla contrapposizione tra gang e alla necessità di elaborare un codice che funga da strumento di comunicazione e marcatore del territorio, sono ricollegate le ricostruzioni che collocano l’origine del graffitismo moderno nell’immediato Secondo dopoguerra, all’interno dei pericolosi barrios abitati dai latinos delle città della West Coast americana. In questo caso gli scopi di tali azioni sono esclusivamente funzionali alle attività malavitose delle bande, cosicché nei primissimi anni Settanta, con la rapida formazione dell’autonomia del graffiti-writing fondata su norme non scritte e sulla nascita di uno stile con una propria evoluzione formale, la differenza tra i graffiti delle gang e quelli dei primi writer è già ben marcata.
Egidio Emiliano Bianco