Bir zamanlar Anadolu’da
Il regista turco Nuri Bilge Ceylan ha fatto in modo che le relazioni interne a Bir zamanlar Anadolu’da (in italiano C’era una volta in Anatolia) e gli effetti generati dall’opera sul pubblico si sviluppassero con forti analogie. Sommariamente, il film potrebbe riassumersi nel viaggio di un commissario, un procuratore e un medico – e di un nutrito gruppo di lacchè – alla ricerca di un uomo assassinato e seppellito: la squadra vaga per le steppe dell’Anatolia seguendo le indicazioni del presunto omicida, un tipo silenzioso e confuso, che fatica a ricordare dove nascose la vittima; a notte fonda il gruppo decide di sostare presso il villaggio più vicino, ospite del sindaco; qui l’assassino torna a ricordare, o sceglie di ricordare, il luogo della sepoltura e, all’alba del giorno seguente, il corpo viene dissotterrato e portato in città, per essere riconosciuto dalla moglie e per eseguire l’autopsia.
La luce lunare e i fari delle automobili svelano la prima parte della pellicola, mostrando in campo lungo il peregrinare delle tre automobili, alle calcagna della memoria perduta della guida; Nuri Bilge Ceylan fornisce i riferimenti lentamente rilevati dai personaggi, ponendo così gli spettatori allo stesso livello esperienziale: sensazioni di spaesamento e conseguenti stati d’animo. Ogni qualvolta, però, si attende l’evoluzione della vicenda, la camera fa un passo in là, si allontana, spostando la scena, per esempio, sulle conversazioni nell’autovettura e rifrangendo la linea narrativa in altri nuclei che, a loro volta, verranno scientemente persi di vista, per poi essere ripresi. Questo procedere, apparentemente dispersivo, tesse una ragnatela di incontri e centri d’interesse antitetica rispetto alla convenzionale consequenzialità tematica delle comuni dimensioni diegetiche: ogni fatto si relativizza in un girocollo di questioni affini, irrisolti passati dei personaggi o concrete situazioni sul luogo. I concatenamenti di interruzioni e deviazioni sbrindellano la forma-azione e ricreano, sia per i protagonisti che per gli spettatori, un ordito accostabile a quello della vita reale, nella quale è proprio l’incespicare in improvvisi frammenti a disegnare la mappa dei prossimi movimenti. Questo meccanismo è riprodotto anche nel secondo atto di Bir zamanlar Anadolu’da che, ambientato nell’abitazione del sindaco e illuminato solamente da qualche candela, rimanda a certi dipinti di Georges de La Tour e Jan Vermeer. Per tutta la sua durata il film è caratterizzato da alcune costanti: il viaggio che coordina ogni discorso, un personaggio (commissario, procuratore, medico) che a turno prevale in ogni atto, la studiata differenziazione delle fonti di luce (luna e fari, candele, sole) che contribuisce alla tripartizione dell’opera – e lo scoprirsi degli individui che sovrasta le scoperte lungo il tragitto (la precaria salute del rampollo del commissario, la tragedia della consorte del procuratore, il cambiamento di prospettiva del medico che, avvicinandosi diversamente agli uomini, scortica la propria visione asettica e scientifica); ma a dominare è il continuo frangersi del presente in contraddizioni e affinità, come nella scena finale, nella quale l’esame autoptico è simultaneo allo sguardo del dottore, i cui occhi, dalla finestra dell’ospedale, colgono il figlio della vittima vicino a dei coetanei che giocano con una palla.
Detachment
Pittore, compositore, cantante, regista di video musicali, il londinese Tony Kaye, che nel 1998 aveva esordito nel mondo del cinema con il lungometraggio American History X, è tornato sui grandi schermi con Detachment (occorre ricordare anche Lake of Fire, documentario del 2006 mai distribuito nelle sale italiane).
Profilo sottile, naso importante e affilato, le sopracciglia che indicano i padiglioni auricolari, l’attore Adrian Brody incarna Henry Barthes, supplente di letteratura catapultato in un liceo della periferia americana; in quest’edificio ha a che fare con un campionario di adolescenti problematici, ragazzi privi di interesse o di speranze, studenti coi quali è impossibile tenere una lezione frontale, che necessitano di essere scavati nella loro realtà socio-familiare e che rispondono soltanto davanti a un insegnante in grado di scollarsi dalla cattedra e affrontare personalmente le loro storie. Detachment può essere visto come una riflessione per immagini sull’inadeguatezza della scuola pubblica negli Stati Uniti, la cui efficienza in determinati contesti pare dipendere esclusivamente dal sovrappiù di qualità umane del corpo docente. Tony Kaye, però, ha messo in scena qualcosa di diverso da un semplice e ben riuscito manifesto di denuncia: al di là delle animazioni stilizzate che preludono ai momenti di maggior drammaticità e non fermandosi alle indagini psicologiche dei primi piani (pur apprezzandone la maestrìa), la pellicola apre a questioni quali l’identità e il soggetto. L’insegnante Henry Barthes emerge assieme alle eterogenee narrazioni rappresentate: la giovane prostituta, coetanea dei suoi alunni, accolta e medicata nella propria casa; le confessioni di una studentessa umiliata dai compagni e denigrata da un padre incapace di apprezzarne l’estro fotografico; la classe scolastica nella totalità e nelle difficili individualità; il nonno, logorato dalla demenza senile, che lo costringe a corse notturne sul luogo del ricovero; i continui flash-back che raccontano la sua infanzia, l’episodio del suicidio della madre. Henry Barthes si staglia su tutte queste emergenze ma è anche il punto di vista, lo sguardo che le raccoglie; la sua peculiarità risiede nel distacco – detachment, appunto – attuato ogni volta in cui, a causa di queste relazioni, sente il rischio di bloccarsi in un’identità, “non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me stesso e al contempo così presente nel mondo”, citazione di Albert Camus che testimonia lo status del docente come presenza di un’intermittente assenza a sé. Il distacco più faticoso è quello dal suo passato di bambino, dalla prematura scomparsa della figura materna: immagini dolorose di una ferita difficile da rimarginare, conoscenza del dolore che diventa precondizione di un’inconscia strategia relazionale. Anche la professione di supplente, emblema della precarietà, conferma la condizione dell’uomo: Henry Barthes è una casella vuota, una cattedra vagante, la cui formazione di senso viene sempre determinata dal rapporto, in divenire, con le altre pedine della costellazione; non a caso, lo scatto elaborato dall’alunna-fotografa lo ritrae senza volto, coi tratti del viso cancellati in una nuvola bianca, companatico della sua affermazione “io non sono qui, anche se mi vedi in realtà non ci sono”.
Giordano Bernacchini
D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012