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Social Network: condivisione, partecipazione, autonomia

L’era dei social network è dunque il trionfo della trasparenza, della partecipazione, della “pubblicità” (non nel senso di advertising, ma del valore pubblico di ogni nostra azione)? Parrebbe di sì, se ci accontentassimo di registrare il fatto che questa nuova costellazione di siti e piattaforme si basa sul cosiddetto user generated content, che siamo noi utenti a determinare, con ciò che carichiamo, i contenuti del Web 2.0. Ma non era questo ciò che aveva cercato di favorire il movimento degli hacker? Non si sta quindi realizzando in qualche modo il desiderio di orizzontalità e di condivisione richiesto dalle controculture digitali degli anni 1980 e 1990? Non siamo forse nell’epoca del potere degli utenti, come i Pangloss contemporanei ci ripetono da giornali, televisioni e blog? È lecito dubitarne.

Un'immagine dal sito face-to-facebook.com
Un’immagine dal sito face-to-facebook.com

Il  Web 2.0 è puro “capitalismo della conoscenza”, è l’ulteriore dimostrazione della capacità dei dispositivi globali di valorizzazione di trasformare in attività economica (e quindi in profitto) ogni attività linguistica e relazionale degli esseri umani. Quindi in primo luogo l’“amicizia” che regna zuccherosa su Facebook, la “condivisione” che si realizza nelle playlist di YouTube, la “comunicazione” istantanea che cinguetta su Twitter, e sopra ogni cosa il gossip, che dilaga ovunque, inarrestabile appetizer delle relazioni nel mondo grottescamente adolescenziale dei social network (il “grottescamente” non si riferisce, è ovvio, agli adolescenti anagrafici, ma a quelli “di ritorno”, di cui nei social network vi è grande abbondanza). Certo, tutto ciò è molto “orizzontale”. Le relazioni, la comunicazione, la creatività, tutto orizzontale. Le gestione di tutto questo, e i profitti che ne conseguono, invece no. Quelli restano verticali, riservati ai “proprietari” e agli investitori, e noi utenti non solo non ne ricaviamo alcun utile economico, ma non abbiamo neanche alcun potere di controllo su ciò che immettiamo nei social network. La direzione di Facebook, per esempio, ha il potere di rimuovere, quando e come vuole, foto e video postati, addirittura di rendere del tutto invisibile il nostro profilo, quando ciò violi dei misteriosi e insindacabili criteri decisi dal signor Zuckerberg e dal suo staff. Ma l’utente non ha alcuna possibilità, quando lo ritenga opportuno, di cancellare nessuno dei dati che ha immesso in questo social network, neppure quando decide di allontanarsene. Un profilo Facebook è per sempre.

 Quella che viene convenzionalmente chiamata “net art” ha ben poco a che fare con quella che noi, col nostro cervello paleolitico, continuiamo a pensare come “arte”. Condivide, certo, con la tradizione che va dalle pitture parietali delle grotte di Lascaux e Altamira sino a Guernica di Picasso, alcune intenzioni di fondo e qualche direttiva metodologica: produrre nel fruitore un’esperienza più intensa di quella quotidiana (l’intenzione), e produrre questo effetto rispettando alcune preoccupazioni formali (il metodo). Ma se ne distacca perché ha ormai separato quelle intenzioni e quella metodologia dalla questione della “rappresentazione”. La net art non rappresenta un bel nulla, agisce in modo diretto. Due di questi cosiddetti “net-artisti” (che io definirei più pertinentemente “ricercatori sociali” o “attivisti espressivi”), Paolo Cirio e Alessandro Ludovico, hanno lanciato il 2 febbraio di quest’anno, a Transmediale (Berlino) il progetto Face to Facebook (http://face-to-facebook.net/). Con un software di loro creazione hanno prelevato da Facebook 1 milione di profili (tutti ovviamente pubblici), li hanno filtrati con un ulteriore software di riconoscimento dei visi, e hanno postato i 250.000 profili così ottenuti su un sito web di ricerca di contatti e appuntamenti,  Lovely-Faces.com (http://www.lovely-faces.com/). Per compiere questa operazione nessuno script è stato installato permanentemente sui server di Facebook, come accade per la gran parte delle applicazioni collegate a quel social network. È quindi (come sempre) inspiegabile e frutto di pura paranoia la reazione di Facebook che, nello stesso giorno, ha disattivato gli account di Cirio e Lodovico, ingiungendo loro, tramite i legali, di smantellare il sito Lovely-Faces.com. L’operazione, certo, esplicita in modo provocatorio la totale assenza di controllo che l’utente ha sulle informazioni rese pubbliche sui social network (Time ha scritto: “Potreste essere iscritti al servizio di appuntamenti di  Lovely-Faces.com senza neanche saperlo”), ma non espone gli utenti ad alcun rischio che essi già non corrano per effetto della loro iscrizione a Facebook.

Julian Assange
Julian Assange

 Da un certo punto di vista, dunque, azioni come Face to Facebook hanno tutto il diritto di richiamarsi a un’etica o a una “estetica” hacker, ma proprio perché mettono a nudo lo iato fra ideologia e pratica dei social network, non già perché ne assecondano (né giustificano in alcun modo) la melliflua propaganda. È evidente che esperienze del genere, anche quando hanno successo, non possono né vogliono competere con i grandi numeri dell’utenza dei capofila del web. La resistenza e la critica riguardano sempre delle minoranze, che però, al momento opportuno, possono giocare un ruolo nell’orientamento e nei movimenti di schiere più vaste di persone. Una società non può dirsi autonoma (cioè, autenticamente libera) se non lo è la maggioranza dei suoi membri, e tuttavia la pratica dell’autonomia, prima di affermarsi e radicarsi a livello sociale, ha sempre bisogno di essere dichiarata (e soprattutto praticata) da minoranze, anche ristrette a livello numerico, purchè le loro azioni siano ispirate a un punto di vista e a un’intenzione coerente, e, soprattutto, offrano a chi ne abbia l’intenzione strumenti e occasione di orientamento diverso e di azione alternativa. Furono questi, in fondo, il valore e l’importanza del movimento hacker. Bisogna dire allora che, nell’alleanza che si era creata negli anni 1990 fra pratiche “artistico-sociali” e attivismo di rete, oggi le difficoltà maggiori sembrano venire dalle seconde, e non dalle prime (che gli “artisti” avessero bisogno di essere costentemente pungolati e stimolati dai movimenti sociali, è più che scontato, e ampiamente documentato, dall’Internazionale Situazionista al 68 e oltre). Fra gli esempi che si possono fare, c’è la brutta avventura del Pirate party svedese, che non ha saputo affatto consolidare in senso etico e sociale il successo elettorale del 2009 (per una discussione su questa esperienza, vedi http://slowfox.wordpress.com/2009/07/26/swedish-pirate-party-a-critical-examination/), e, più recentemente, il dibattito che si è aperto nella comunità hacker sul caso Wikileaks.

Antonio Caronia

D’ARS year 51/nr 205/spring 2011

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