Dopo la sua proclamata rinuncia all’arte, Maurizio Cattelan ritorna nel ruolo di curatore con una mostra di attesa provocazione: Shit and Die. La mostra, realizzata in collaborazione con Myriam Ben Salah e Marta Papini, attira con un odore di scandalo annunciato e lunghe file di persone che attendono un’ora per entrare.Il tema della collettiva è la città stessa, una Torino vista con critica e malignità, sia nei suoi aspetti modernisti – mostrando i “vizi segreti” dell’architetto Mollino con le sue foto di belle ragazze svestite (con un occhio al surrealismo erotico), oppure i ritratti dei protagonisti della città con tecniche di sommaria illustrazione.
I punti di collegamento fra culture alte e basse sono individuati con precisione da Cattelan e messi in scena con la sua consueta strategia di colpi di scena, fra lo sberleffo neodada e le strategie dell’advertising. Troppo attraente è l’occasione della trasgressione verso la più “borghese” delle città italiane per non sprofondare nella contestazione più a forti tinte.
Myriam Ben Salah e Marta Papini assistono lo straripante Cattelan nella curatela della mostra. Mostra che, come tutto il lavoro di Cattelan, svolge strategie di marketing riferibili a diverse fonti. Un famoso designer torinese pubblicizzò anni fa una marca di salumi avvolgendo di fette prosciutto una poltrona. Il messaggio era: il prosciutto è morbido come una poltrona. Cattelan utilizza una serie di riferimenti che attraverso diversi linguaggi portano alle stesse forme/conclusioni. Nei suoi lavori più interessanti come il tappeto del “Bel Paese” e il Papa Woytila colpito da un corpo celeste, Cattelan crea un incrocio interessante fra comunicazione ed espressione artistica, pratica classica del moderno uso dei linguaggi della comunicazione, in particolare dei linguaggi pubblicitari. Ma non siamo più ai tempi di Depero né ai più recenti di Andy Warhol.
Il lavoro di Cattelan va confrontato alle altre due star mediatiche di questi anni: Jeff Koons e DamienHirst, a cui si avvicina per prezzi di mercato e scandalo mediatico. Il confronto fra i tre autori è interessante perché pone in questione l’ondata post-pop che si è posta al centro del mercato dell’arte (e del sistema dell’arte) negli ultimi quindici/venti anni, e che ha conquistato le vette dei prezzi, come anche l’ossequio dei musei. Dei tre artisti quello in fondo più convincente è proprio Cattelan, perché più saporito, più provinciale e forse più autentico. C’è nei suoi lavori uno spirito vernacolare che ricorda il vecchio giornale satirico Il Travaso, le discussioni al bar fra sportivi e l’umorismo che da questi viene. Questo pone dei limiti ma anche dei pregi. Non c’è il Macabro Splendore del DamienHirst del teschio coperto di diamanti, né la noiosa sequela di cani/palloncini, porno/sex e altro che ci crolla addosso in ogni mostra di Jeff Koons. C’è un sano e un po’ paesano humour che comunica con la sveltezza di uno spot televisivo. La mostra rappresenta dunque un’opera di Cattelan e la sua presenza ne occupa indiscutibilmente il centro. In questa mostra/opera, così come nel suo lavoro (non credo assolutamente all’annunciato abbandono della scena) ci sono sezioni brillanti, altre forse inutili, altre decisamente divertenti (e quindi utili). Rimane un vuoto di lettura e di percezione, un vuoto di senso che si vorrebbe fosse superato da altri elementi. Ma non c’è risposta nel lavoro di Cattelan se non ciò che già vediamo e che emerge nelle tranquille risposte che ha dato alle tante interviste senza dare nessun senso alle parole. Tranquillo.
Lorenzo Taiuti
Fino all’11 gennaio 2014
Palazzo Cavour, Torino