Spettacoli che affrontano il tema dell’infanzia tradita e disillusa ce ne sono molti e molti. Inondano i palchi di lacrime e pietà. Sull’onda del teatro di narrazione qualcuno è passato anche dal Teatro Camploy di Verona come questo Sad / Sam Almost 6 del croato Matija Ferlin. Da Filippo Timi a Emma Dante, passando per Davide Enia, abbiamo visto di bambini violentati, maltrattati e chiusi nel loro oblio di autismo e disperazione infantile. L’infanzia che cambia il presente è un tema facile come l’Olocausto il giorno della memoria. Però si può parlare di solitudine senza essere soli, di infanzia senza essere infantili.
Lo spettacolo, voluto da Are We Human nella rassegna “Kids University” , se può avere le tematiche dell’iniziazione all’adolescenza non ha però con sé la pesantezza del compiacimento, il melodrammatico italico e quella stucchevole pietà di lacrimevole compassione. Per una volta, e dovevamo attendere il vento del vicino Est, la semplicità e la linearità non fanno paura. E gli oggetti convincono perché sono lasciati essere tali, così come sono. Non ci si commisera, non ci si crogiola nei blocchi che hanno inchiodato il protagonista dentro un cerchio di animaletti giocattolo. Eppure Sad Sam / Almost 6 lavora sul meta-teatro perché quando l’attore nomina tutti gli animali in realtà sta nominando gli spettatori che puntualmente chiacchierano a luci accese in sala.
Parla dentro al cerchio di giocattoli ma i fari illuminano un esterno che è pure la vita precedente del protagonista. Un teatro contenuto in un altro teatro perché anche un lavoro così definito, austero e perfetto può essere infinito, aperto all’incompiuto (non a caso nel titolo c’è un numero). Come a dire, dentro e fuori il teatro c’è una storia da raccontare, senza sfarzo e senza pathos. E il teatro è il contenitore essenziale, con i suoi fari a vista, i suoi fondali mostrati.
Ci basta riconoscere due o tre movimenti “alla Sasha Waltz” per riconoscere il rigore formale con cui Ferlin ha lavorato sul corpo, riportando sul palco (altra operazione meta-teatrale) anche spezzoni dei laboratori fatti con la coreografa tedesca. Passeggia come Bruce Nauman in Wall floor positions ed è chiaro che il suo minimal è la stessa esplorazione degli spazi e dei linguaggi. Linearità del cerchio, geometria dello spazio esterno, posture ossessive che rincorrono il concettuale più che il performativo. Lo stesso uso stentoreo della parola: il rigore di nominare tutti i centoventisei giocattoli attorno a lui come se nominassi i caduti di un ground zero, come un appello senza appelli.
Il rigore di un gioco che avremmo osservato migliaia di volte guardando i bambini distesi sul pavimento a conversare con i loro amici invisibili ma che qui si pulisce di ingenuità e gratuità per diventare piuttosto un’empatia troncata. Ferlin non parla né ai muti giocattoli di plastica, né a noi, anche se qualche spettatore abbozza una improvvida risata. Sulla sua pista da circo, sotto una stella caduta (o rovesciata) ci parla piuttosto di tutto quel che è assente, di tutto quel che manca. Senza bisogno di aggiungere altro.
Simone Azzoni