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Robotic Art

«Il vecchio Rossum, grande filosofo, si ficcò in testa che avrebbe fabbricato un normale vertebrato, addirittura l’uomo. […]. Quel che fece era terribile. Ma dentro aveva tutto quello che ha un uomo. E allora venne l’ingegner Rossum, il nipote del vecchio, una testa geniale. Appena vide quel che il vecchio stava facendo, disse: “È assurdo fabbricare un uomo in dieci anni. Se non lo fabbricherai più rapidamente della natura, ce ne possiamo benissimo infischiare di tutta questa roba”. […] Allora il giovane Rossum inventò l’operaio con il minor numero di bisogni. Dovette semplificarlo. Eliminò tutto quello che non serviva direttamente al lavoro. Insomma, eliminò l’uomo e fabbricò il Robot».

IL TESTO, TRATTO DALL’OPERA TEATRALE R.U.R. DI KAREL CAPEK, è significativo per una immersione nel fantastico e artificioso clima post umano, caratterizzato dal rapporto uomo-macchina. In quest’opera compare per la prima volta la parola robot (dal ceco robota, “lavoro duro, lavoro forzato”). Il termine fu inventato e suggerito all’autore dal fratello pittore, Josef. Proprio i roboti di Capek non sono in realtà robot nel senso poi attribuito al termine, ovvero automi meccanici, ma esseri “costruiti” producendo artificialmente le diverse parti del corpo e assemblandole insieme. Insomma si tratterebbe di una creazione più artistica che meccanica…

Theo Jansen, Animaris, scultura robotica, 1980-2000 (II).
Theo Jansen, Animaris, scultura robotica, 1980-2000 (II).

Lungo questo affascinante percorso attraverso la vita e l’arte, non poteva mancare una riflessione sull’arte e la robotica. Negli ultimi anni stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione robotica, che sta invadendo tutti i campi umani, tra cui anche quello delle arti tecnologiche.

Non passa molto tempo tra lo sviluppo dei prototipi dei primi “non commerciali, negli anni Cinquanta, e quello, nel campo dell’intrattenimento e della ricerca scientifica, delle prime opere d’arte robotica, che si inseriscono all’interno di un panorama artistico in evoluzione, tra la corrente del cinetismo e la reintroduzione della macchina all’interno del dibattito dell’arte.

All’alba di questo panorama, particolarmente interessante è CYSP, scultura cibernetica di Nicolas Shöffer. Quest’opera, presentata al pubblico parigino nel 1956 durante la manifestazione The poetry night, rappresenta un primo e pionieristico passo avanti, dal momento che è sviluppata con sensori e altrettanti componenti elettrici che riproducono diversi tipi di movimenti in base all’interazione con lo spettatore. Ungherese di nascita (Kalocsa 1912, Parigi 1992) ma parigino d’adozione, Shöffer è considerato uno dei padri della dell’arte cibernetica, colui che segna il passaggio tra meccanica ed elettronica, tra arte cinetica e robotica. Ecco cosa scrive Shöffer a proposito: «La tecnologia è l’elaborazione ed il miglioramento dei metodi dei campi umani. Distingueremo tre tecnologie: una tecnologia strumentale, che si sviluppa da tre milioni di anni. Va dagli attrezzi più semplici ai microprocessori. Una tecnologia sociale che è legata alle idee o agli oggetti di tipo finanziario, industriale e politico, e una tecnologia economica, che si riferisce ai princìpi ed alle tecniche di profitto degli investimenti, così come agli studi teorici ed al loro sviluppo pratico».

In realtà un primo esperimento, come ricorda Eduardo Kac in Robotic Art Chronology, già c’era stato nel 1955, da parte di un membro del gruppo giapponese Gutai, Akira Kanayama, con l’opera Picture remote-control, che utilizzava un dispositivo telecomandato. Kanayama fu probabilmente influenzato anche dal contesto avanguardistico in cui operava, basato sulla multidisciplinarietà, intesa come “incrocio di generi”, e sul rifiuto di considerare l’arte come un ambito separato dalla vita e di delegare la creatività a settori specialistici, o tecnici, o culturali. Il processo elettromeccanico da lui utilizzato gli ha permesso di creare non solo un’opera, che fu presentata in anteprima alla First Gutai Indoor Exhibition a Tokyo, ma un nuovo tipo di concezione artistica. La gestualità della creazione di Kanayama, così realizzata, svela una nuova potenzialità, quella della macchina al posto della mano dell’artista, che può produrre senza toccare.

Nicolas Shöffer, CYSP 1, 1956
Nicolas Shöffer, CYSP 1, 1956

Su questa scia, in equilibrio tra sperimentazione e nuove problematiche, verso la metà degli anni Sessanta si collocano tre opere fondamentali nello sviluppo dell’arte robotica, che danno in un certo senso la direzione ai protaginisti del futuro: K-456 (1964) di Nam June Paik, Squat di Tom Shannon (1966) e Senster di Edward Ihnatowicz (1969-1970). Questi interventi sono molto significativi, in particolare in una prospettiva odierna, perché rappresentano tre canoni estetici a cui poi negli anni successivi si sarebbero rifatte le successive generazioni di artisti.

Il robot K-456, creato dal padre della videoarte, era un mucchio di rifiuti alto due metri con le eliche di un aeroplano giocattolo al posto degli occhi, controllato da un radiocomando, interattivo e mobile. Anche Charlotte Moorman, collaboratrice di Paik, ha realizzato una performance musicale insieme al robot, con il quale ha suonato Plus-minus di Stockhausen.

Il Senster è «la risposta più grande e ambiziosa di Ihnatowicz». Oltre a interagire con i presenti, quest’opera era capace di rilevare per mezzo di un radar e probabilmente è la prima scultura robot controllata per mezzo di un computer. Alta più di quattro metri, era stata creata con fusioni di alluminio su una struttura d’acciaio. Il movimento, controllato da un calcolatore, è abbastanza fluido, anche se ancora ragionevolmente semplice. Rappresenta il primo caso di autonomia comportamentale nell’arte robotica, è cioè la prima opera in cui l’interazione nello spazio è innescata da un elaboratore dati.

Nam June Paik e Charlotte Moorman, performance con Robot K-456, 1964
Nam June Paik e Charlotte Moorman, performance con Robot K-456, 1964

Con lo Squat di Shannon ecco la prima opera interattiva, ibrido tra organico ed inorganico, una pianta che al contatto umano attraverso dispositivi elettrici cambia direzione e si muove, che allora come oggi solleva l’attualissimo problema delle opere cibernetiche. Nell’edizione 2005 di Ars Electronica, dal titolo Hybrid – living in paradox, l’ibrido è stato proprio il tema portante, così vicino alle scelte artistiche di Shannon di quarant’anni prima.

Proprio in questo contesto i vari eventi e le mostre presentate hanno voluto mettere in discussione nuove interazioni tra scienza, società ed arte, come confermano anche le scelte dell’edizione di quest’anno – The Limits of Intellectual Property – sul rapporto tra la libertà di informazione e la protezione del copyright, le opportunità del mercato e la visione di una società basata sulla conoscenza condivisa.

«Viviamo ormai in un mondo dove, grazie ai mezzi di comunicazione e alle nuove tecnologie, tutti i confini sono superati, non solo quelli territoriali, ma anche quelli materiali, psicologici o etici», commenta Gerfried Stocker, il direttore della manifestazione.

Gli intenti dello Squat di Shannon non sono allora così lontani da quelli presentati sotto il cielo di Linz di qualche anno fa. La mostra principale della manifestazione era stata allestita infatti con opere robotica dall’artista Theo Jansen. Le sue macchine di grandi dimensioni sono la popolazione del suo mondo fantastico, e prendono energia esclusivamente dal vento mettendo in evidenza l’ibrido tra la scienza dell’ingegnere e i principi naturali biologici.

In fondo, le prime sperimentazioni dell’artista ricalcano quelle dei futuristi e degli artisti cinetici – in un certo senso “padri” degli artisti robotici – e di Shannon probabilmente. Allora forse, rispetto a quarant’anni fa, oggi qualcosa è cambiato, dal punto di vista culturale. Più probabilmente, sono maturati i tempi per parlare più diffusamente del concetto di ibrido e di robot. Le opere di Jansen ne sono solo un esempio: ibridi semi-tecnologici robotizzati, alla ricerca di un equilibrio naturale.

Laura Sansavini

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