Carmen Herrera nasce nel 1915 a L’Avana. Nel ’39 si trasferisce a New York, dove studia alla Art Students League. Dal ’48 al ’53 è a Parigi, dove espone i primi lavori astratti al Salon des Réalités Nouvelles – erede di Abstraction-Création. Il direttore Fredo Sidès, davanti a una sua tela, le dice: “Madame, ci sono molti dipinti in questo dipinto”. Lei rimane lì per lì lusingata, poi capisce che Sidès, al contrario, le ha appena suggerito di semplificare la sua pittura. Di nuovo a New York nel ’54 – immigrata cubana, pittrice minimalista, donna – riesce a esporre solo in qualche collettiva d’arte latinoamericana o tutt’al più al femminile, ma le sue tele, seppur innovative, non suscitano l’interesse di critici e galleristi, che hanno occhi solo per gli espressionisti astratti – che sono tutti uomini. Un giorno, pare che Rose Fried sia interessata ai suoi lavori; va a farle visita nello studio; poi dice che non le organizzerà mai una personale perché è una donna. È uno schiaffo in faccia, ma lei non molla. Nei trent’anni successivi seguono mostre sporadiche, senza mai vendere una tela. Ogni tanto sembra venire il momento della svolta – una retrospettiva all’Alternative Museum nell’84; un film documentario – ma passa com’è arrivato. Poi, nel 2004, un amico riesce a inserirla all’ultimo in una collettiva alla galleria di Frederico Sève, che la riconosce pioniera del minimalismo, della hard edge painting e forse anche della op art; e vende la prima opera, a 89 anni. La critica si sveglia, i galleristi se la contendono, il MoMA e la Tate Modern acquistano due opere degli anni ’50. Il novembre scorso, Christie’s New York ha battuto una sua opera del ’71, Amarillo Dos, a 170,500 $.
Questa, in breve, è la storia di Carmen Herrera. Venendo all’opera, si dirà che le sue geometrie sono precise e ordinatissime. Caratteristiche che emergono nelle tele e ancor più nei lavori su carta, come quelli recenti in mostra alla Lisson Gallery di Milano. Tale pulizia dell’immagine è il risultato di una lunga progettazione che si svolge per tentativi, in un susseguirsi di “strade non prese e strade prese”. I colori usati sono sempre due: uno per le figure, uno per lo sfondo – che nei lavori su carta è il bianco del foglio. Ma non si potrà aggiungere altro, se non cadendo in una piatta descrizione formale delle singole composizioni. Tutto ciò che c’è da vedere è davanti agli occhi, senza allusioni, senza significati nascosti da interpretare.
[yframe url=’http://www.youtube.com/watch?v=7InocPdGzHA&list=UUudtspbiT37xkEn-OL3U1lw&index=12 ‘]
Più interessante pare suggerire una visione d’insieme della sua produzione dagli anni Quaranta ad oggi, che la fa scoprire, seppur tardi, una protagonista del modernismo novecentesco. Un buon punto di partenza è il film di Ray Blanco Artist in Exile: Carmen Herrera (1994), di cui qui trovate i primi dieci minuti.
Stefano Ferrari
Carmen Herrera. Works on paper 2010-2012
Dal 25/01/13 al 15/03/13
Lisson Gallery
Via Zenale 3, Milano
www.lissongallery.com