Quella notte il villaggio – che sorgeva su di un promontorio roccioso, accanto ad un fiumiciattolo – fu attaccato da un’orda di guerrieri spietati.
Fu subito dato fuoco alle fiaccole, e gli arcieri tesero i loro archi, facendo fischiare nell’aria la melodia mortifera dei dardi.
I samurai fecero gemere le loro katane, fino a pochi istanti prima addormentate dentro ai foderi di legno laccato.
Ed anche i contadini ed i pastori – chi imbracciando una vanga, chi brandendo rastrelli – si misero a combattere a difesa del villaggio.
La notte risuonò del fragore metallico delle nostre armi, e delle grida dei nemici, straziati ed uccisi dalla nostra resistenza coraggiosa.
Unicamente all’alba – quando le fiaccole erano ormai consumate ed il sole andava sostituendo alla loro luce la propria – potemmo dire conclusa la battaglia, e dare inizio alla conta dei morti. Ognuno di noi ritrovò, sul campo, i propri amici… morti. E, cosa ancor più sorprendente, li trovò con indosso le armi ed i colori del nemico. Poi, però, ognuno ritrovò quegli stessi amici tra i vivi, con indosso le armi ed i colori dei compagni.
Inutile tentare di descrivere lo stupore e l’incredulità che questo fatto magico, e misterioso, suscitò in tutti noi.
Mentre ognuno era intento a confrontare i propri amici vivi con quelli morti, in cerca di una spiegazione, ecco che questa si palesò, ancor più sorprendente del fatto che avrebbe dovuto spiegare…
Un fante ritrovò, riverso su di un masso levigato dal fiume, il suo cadavere. Ognuno poté trovare, tra le fila dello confitto esercito nemico, il cadavere di se stesso. Fu chiaro, a quel punto, che avevamo combattuto contro noi stessi. E ci eravamo uccisi, pur essendo riusciti a sopravviverci. Animati dalla volontà di cancellare dal mondo ogni traccia di quel folle sortilegio, per tutto il giorno trasportammo i nostri cadaveri in un deserto sabbioso ch’era poco distante. Ed al tramonto, quando ognuno aveva trasportato se stesso al cimitero, donammo alle fiamme i nostri simili, lasciandoli lì a bruciare per tutta la notte.
Il dì appresso, alcuni di noi andarono a controllare e, rimosse le armature carbonizzate, e la cenere dei corpi, scoprirono che la sabbia, fusa dal calore, s’era mescolata al metallo delle armi, ed era divenuta lucente e liscia.
Era uno specchio.
Ed al di là dello specchio le copie di noi stessi erano tornate vive, ed allegre. E da allora ci beffeggiano e ci canzonano, imitando il nostro vivere a metà, assassini di noi stessi, relegati al di fuori di quel mondo al quale ogni specchio conduce…
Federico di Leva
D’ARS year 52/nr 212/winter 2012