La prima retrospettiva dedicata al visionario stilista e furniture designer Rick Owens alla Triennale di Milano. Rick Owens: Subhuman Inhuman Superhuman – proposta dalla curatrice Elisabetta Fiorani – è un compendio narrativo su vent’anni di carriera trascorsi a elaborare una forma di bellezza inconsueta.
La Triennale di Milano ospita – fino al 25 marzo – la prima mostra dedicata al lavoro di Rick Owens, un’antologia di abiti, oggetti e arredi – e un concept – da lui ideati e selezionati.
La mostra si apre con una gigantesca installazione scultorea sospesa che prosegue lungo l’intero spazio dell’esposizione, un nero assemblaggio materico di cemento, gigli, sabbia dell’Adriatico e capelli dello stesso stilista in forma di condotto – o serpente – di reminiscenza tanto primordiale quanto aliena, evocante l’inevitabile impulso creativo che ci spinge in avanti, nel bene e nel male.
“Volevo prendere ciò che un mondo sprezzante può deridere, per trasformarlo in qualcosa di buono, empatico, gentile e inclusivo”.
Questa è l’introduzione alla visione creativa di Rick Owens (e della moglie, Michèle Lamy), un designer definito spesso “neogoth”, “punk” o “tribale”, che di se stesso dice “I’m a fifty-two-year-old man trying to pretend that I’m a sixteen-year-old skate punk” (Sono un uomo di 52 anni – ora 56 – che cerca di fingere di essere uno skate punk di 16), e che, nato in California e educato in una scuola cattolica, si è formato artisticamente nell’underground losangelino degli anni ’80.
L’opera d’arte totale concepita per la Triennale rappresenta, infatti, un universo espressivo che è un’autobiografia: “I vestiti che creo […] rappresentano la calma elegante a cui aspiro e i danni che ho fatto lungo la strada. Sono un’espressione di tenerezza e di un animo furente. Sono un’idealizzazione adolescente e la sua inevitabile sconfitta.”
Dopo aver lavorato anche nell’industria dei capi copiati e dei falsi, e dopo l’incontro con Michèle Lamy, a metà degli anni ’90 Rick Owens avvia il suo marchio per creare moda sovvertendo i canoni del gusto allora imperante con abiti dalle forme organiche o rigidamente brutaliste, ma comunque sempre abbastanza slegati dalle tradizionali forme anatomiche.
Lamy, origini franco-algerine altoborghesi, ex-studentessa in legge e protegée di Gilles Deleuze, dopo il maggio ’68 e un’iniziale carriera da stripper, si era trasferita a Los Angeles ed era divenuta nota per aver dato vita a un locale – Les Deux Cafes – punto di riferimento della scena artistica della città.
Portatrice lei stessa di un’estetica radicale che mette in discussione molto di quello che si vede nel mondo della moda, l’avanzare degli anni esaltato da una mappatura di rughe alternate a tatuaggi e gioielli che la trasformano in un idolo neo-pagano o post-atomico – il che forse è la stessa cosa – viene spesso definita sbrigativamente “musa”, termine che però presuppone un ruolo inattivo, mentre è proprio Owens, in un’intervista a Lou Stoppard per il libro Fashion Together: Fashion’s Most Extraordinary Duos on the Art of Collaboration, a definirla più propriamente “mate” (compagna, semplificando molto).
Da questo sodalizio scaturisce una moda che interagisce con tutti i linguaggi artistici contemporanei – musica, design, fotografia e scultura, certamente influenzata dalla scuola giapponese di Kawakubo, Miyake e Yamamoto, soprattutto nello sviluppo delle forme che si aprono in volumi inediti, ma che, nel contrasto fra elementi arcaici e contemporanei, trova una suggestiva atemporalità. I riferimenti stratificati ad atmosfere tanto sacrali quanto post-apocalittiche, nomadismo tribale e medioevo claustrale, e l’attrazione per le sottoculture, per la fluidità di genere, per l’oscurità e il decadente ma anche per l’energia sprigionata dai corpi si traducono in abiti che Sarah Mower di Vogue.com definisce “adatti a vestire guardiane della soglia” (citando la recentemente scomparsa Ursula Le Guin).
Abiti però di notevole successo commerciale, perché nell’equilibrio fra capi scenografici e capi di uso più quotidiano molti trovano forme rassicuranti che donano una allure ieratica e contribuiscono a proiettare un’ immagine rafforzata di sé senza costringere il corpo e adattandosi a tipi diversi di fisicità. Fisicità a volte fuori dagli schemi come quella delle modelle che – citando una foto di Leigh Bowery – nello show per la p/e 2016, Cyclops, portavano altre modelle issate sulla schiena o sul petto, in una plastica combinazione di resistenza a due. Vere e proprie “superhuman”, per tornare al titolo della mostra, come pure le atlete dello show della p/e 2014 – Vicious – che inscenavano una dimostrazione di stepping (disciplina che mescola break e tap dance) con elementi di coreografie zulu in una performance collettiva di grande forza fisica.
L’elemento “inhuman” è invece nell’uso frequente di elementi naturali e primari per l’ambientazione delle sfilate – luce, vento, fuoco , nel gusto brutalista degli arredi e nella geometria tagliente dei capi più minimali. L’immaginario post- atomico – come Mad Max insegna – apre poi a ibridazioni, “subhuman” o “inhuman”, appunto, e subhuman sono anche, con una leggera ironia, tutte le forme di bellezza non canonica che trovano spazio nella visione di Owens: “Se riuscirò mai a offuscare anche solo leggermente i rigidi parametri di ciò che è considerato bello o accettabile dalla nostra generazione, sentirò di aver contribuito a un potenziale cambiamento positivo di questo mondo”. A meno che tutto questo non sia semplicemente “troppo umano”.
Claudia Vanti
Rick Owens: Subhuman Inhuman Superhuman
Palazzo della Triennale di Milano
Fino al 25 marzo 2018