Che cosa significa (ri)pensare l’arte concettuale in termini storici? Come si può leggerla nel suo sviluppo attraverso il tempo e, soprattutto, attraverso le pratiche messe in atto? Attorno a queste domande Jan Verwoert ha sviluppato il suo intervento alla Staedel di Francoforte, lo scorso gennaio. Un’occasione per apprezzare dal vivo questo giovane e brillante critico, redattore di Frieze, autore della monografia Bas Jan Ader – In search of the miraculous (2006), insegnante al Piet Zwart Institute di Rotterdam e, recentemente, co-curatore della Biennale di Sheffield (2008) e tra gli ospiti del progetto Night School al New Museum di New York con l’incarico di curare un mese di conferenze per il pubblico. Ricostruiamo, innanzitutto, le premesse da cui è partito per avventurarsi nel percorso, talvolta intricato, del concettuale. Se ogni opera d’arte porta con sé delle domande e viene concepita per l’altro, per un pubblico ideale o effettivo, comunque entro una dimensione relazionale, allora il suo status può considerarsi “esemplare” nel senso in cui Giorgio Agamben ha utilizzato questa definizione: si pone, cioè, tra il particolare e l’universale. Come spiegare, allora, l’agency dell’artista in ambito concettuale? Ovvero quali filosofie dell’azione stanno dietro un atto concettuale?
Secondo Jan Verwoert esistono due percorsi principali di ricerca che occorre mettere in discussione, entrambi di radice modernista: la fantasia di legittimazione attraverso il sapere e la trasmissione immediata di un prodotto. Nel primo caso fa riferimento alla visione del concettuale come un’arte di strategie, dove cultura, linguaggio e segni costituiscono un sistema che può essere compreso e decodificato analiticamente. L’opera deve rendere trasparenti le leggi che governano questo sistema, deve “svelare” i suoi meccanismi parlando chiaro al pubblico senza più incantarlo con il mito romantico della bellezza o dell’ispirazione, per esempio. Così l’arte si legittima attraverso il sapere e la piena coscienza dei suoi mezzi diventando innanzitutto un discorso su se stessa. Basta pensare ai lavori storici di Joseph Kosuth come la serie One and Three Chairs (1965). Che tipo di agency ne risulta? Le opere si smaterializzano sempre di più in favore della teoria e diventano un “rendering d’intenzioni” creando nell’artista una forte pressione (paradossalmente analoga a quella del genio) proprio per la necessità di confrontarsi di continuo con leggi universali che legittimano la produzione artistica. L’atteggiamento è, dunque, normativo.
Negli anni Novanta l’eredità concettuale viene recuperata in chiave opposta secondo un’attitudine accostabile alle strategie di product delivery: la trasparenza dell’opera non è più garantita logicamente ma sta nella comunicazione diretta instaurata con il pubblico. E qui Verwoert cita alcuni Young British Artists come Damien Hirst che (attraverso gli strumenti dell’ironia, dello shock, dell’immediatezza) si rivolgono allo spettatore e parlano la sua stessa lingua. Artisti che si propongono come soggetti attivi di un mercato tardo-capitalistico e che affermano orgogliosamente di volersi arricchire grazie al loro lavoro, proprio come qualsiasi persona, diffidando della critica o delle costruzioni teoriche. E chiama in causa anche Maurizio Cattelan, capace di arrivare come un pugno nello stomaco allo spettatore. Nonostante il coinvolgimento immediato, secondo Verwoert, molti lavori del genere rimangono essenzialmente chiusi rispetto al pubblico perché lo mettono, sempre e soltanto, davanti a un’unica domanda: “ti piace?” e le risposte possibili sono o “sì” o “no”.
Se l’opera d’arte concettuale vuole essere una reazione emotiva, etica, politica, se esprime una determinata practice o praxis non deve perdere di vista le dimensioni pragmatiche e il loro potenziale provocatorio. Per esempio il concettualismo degli anni Settanta è stato riletto dalla critica femminista e decostruzionista come un discorso assertivo, maschile, che fondava la sua trasparenza non nel linguaggio in sé bensì nelle strutture di potere che convalidavano socialmente e culturalmente i codici dominanti del linguaggio. Strutture che assumevano proprio quello stesso linguaggio come strumento primo di esclusione e discriminazione. Per superare questa impasse alcuni artisti di ambito neo-concettuale hanno reinventato la possibilità di agire creandosi le proprie condizioni di esistenza, senza più mutuarle fiduciosamente dal linguaggio o dalle strategie della comunicazione di massa. La necessità di dichiarare gli intenti, in maniera esplicita e trasparente, non è più un imperativo dell’arte. Anzi: la tendenza critica è quella di “rispettare” l’opera nel suo mistero (facendo tesoro della lezione di Marcel Duchamp). Così questo hermeticism of desire, ermetismo del desiderio, così come lo ha definito Verwoert, apre di nuovo una stimolante prospettiva di ricerca. Inoltre, la questione dell’autorialità non viene più espressa come una lotta romantica del singolo contro il mondo, sebbene il “dramma della creazione” rimanga un problema aperto. Si tratta di rompere dall’esterno la grammatica concettuale per tornare a immergersi nel flusso artistico, nel continuum tra pensiero e azione, consapevoli di costruire un vocabolario sia personale che sociale alla ricerca di una forma d’intersoggettività, di una differenza critica, di un movimento o uno segno dentro lo scarto di ciò che resta inconoscibile.
Clara Carpanini
D’ARS year 49/nr 197/spring 2009