REPORTING FROM THE FRONT
(ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba).
Ah, l’etica e l’estetica. Che relazione inutilmente tormentata. Periodicamente il conflitto si ripresenta, eppure la distinzione è retorica, prima che teorica, perché spesso non ha nemmeno ragione di essere. È questo il grande postulato alla base della 15. Biennale di Architettura, a cura del cileno Alejandro Aravena, votata al sociale, alla collettività, alla sostenibilità. Etica, appunto.
A proposito di retorica: REPORTING FROM THE FRONT, il titolo che il curatore ha voluto per questa mostra, è una di quelle scelte impegnative che espongono a un tiro incrociato di critiche, neanche a dirlo, da tutti i fronti: troppo o troppo poco, contraddittorio o ipocrita, moralista o estetizzante.
Spesso però, il problema è negli occhi di chi guarda, e si chiama ideologia. Se Aravena non fosse sudamericano, e quindi portatore di suggestioni novecentesche che parlano di rivoluzioni e colpi di stato, ancora radicate nell’immaginario collettivo, le parole e il tema forse non avrebbero avuto questo peso specifico, creando questa aspettativa da guerrilla. Il titolo ha una certa coerenza con quello che la mostra effettivamente è, con il percorso professionale di Aravena, con un’istituzione come la Biennale e con quello che l’architettura dovrebbe fare: migliorare la qualità della vita delle persone. Uno statement solo in apparenza banale, visto che spesso questa ovvietà è dimenticata, persa in derive egocentriche o sepolta da megalomanie progettuali. Da qui la necessità di ricorrere aIla metafora delle battaglie, ma senza belligeranza, senza coltello tra i denti. Non è una biennale “contro”, é un invito accalorato agli architetti a fare la propria parte in un processo corale, dal basso, permeato da un certo ottimismo di fondo: le sfide vengono presentate già sotto forma di soluzione, senza psicodrammi, né bagni di sangue.
Il report è lo strumento designato per questa operazione. Un’interpretazione naif della didascalia, che con una semplicità quasi commovente descrive il progetto seguendo lo schema del chi-che-perchè. Fine. Niente elucubrazioni teoriche. Da questo reporting collettivo, Aravena sembra defilarsi senza imporre una sua visione ma ampliando il più possibile lo schieramento di studi e architetti invitati. E l’apertura è tale da riuscire a includere anche professionisti o progetti che poco hanno in comune con l’architettura engagée dura e pura che molti si aspettavano. Aravena, invece, dimostra di non avere pregiudizi, accogliendo chiunque abbia contribuito, a qualsiasi livello, a segnare un punto vincente nel tabellone delle sfide posto all’inizio del percorso espositivo: diseguaglianze, migrazioni, spreco, per esempio.
Il fronte di Aravena si configura come un sistema aperto, una carrellata di buone idee, alcune brillanti soluzioni a problemi concreti che possano essere di ispirazione per tutti. Un invito al buonsenso (per dirla come Transsolar in mostra alle Corderie): ripensare l’architettura nel suo approccio pragmatico, trattando l’emergenza e la mancanza di risorse come stimoli progettuali, anziché affanni da tamponare. Piccole cose, ma ad ampio spettro: dal NeuBau dello studio Bel,quartiere incrementale per migranti, ai micro-interventi di agopuntura edilizia di ZAO / standardarchitecture, per dare nuova vita all’esistente; dall’utilizzo del Bambù come “acciaio vegetale” di Simón Veléz, all’infinita combinazione del repertorio di materiali di Anupama Kundoo. E per ridurre tempi e costi di costruzione, ben venga pure la “guerra alla curvatura” dichiarata degli ingegneri Ochsendorf, Block e DeJong.
L’urlo di battaglia è “fare”, ed è un grido che si riverbera sulla stessa mostra. Il making of presentato nella sezione introduttiva racconta le varie fasi dello sviluppo della proposta, dalla nomina all’allestimento, portando anche le tracce di progetti abbandonati. Interessante sarebbe stato, ad esempio, il people’s pavilion, una bacheca web per raccogliere idee e contributi da parte dei visitatori, con la sua volontà di apertura (forse un po’ ingenua) alla partecipazione di tutti. Un “director’s cut” che rischia di sembrare autoreferenziale, ma ancora, dipende dagli occhi di chi guarda. La stessa presenza di Aravena, d’altronde, è inversamente proporzionale a quella del suo predecessore Koolhaas: l’olandese era fisicamente assente ma pesantemente caratterizzante nella costruzione della “tesi” dell’esposizione; la curatela soft di Aravena trova il suo contraltare nella sua forte presenza mediatica, nel suo metterci la faccia, letteralmente, ritagliandosi, nella sua mostra, “solo” lo spazio per l’installazione in calcestruzzo e tubi di alluminio riciclati dalla scorsa biennale. Un riciclo estetizzato, ovviamente, ma, dovremmo averlo capito, il problema non si pone.
Si potrebbe obiettare ad Aravena che la piccola scala della sua Biennale, che “esalta ciò che è disponibile anziché protestare per ciò che manca” sia solo un compromesso per pulirsi la coscienza, finendo per legittimare l’apparato di problemi che vorrebbe sconfiggere. In realtà, forse è proprio questa la strada più efficace, secondo lo schema delle tattiche e strategie spiegato da Michel de Certeau in L’invenzione del quotidiano: ingegnarsi con piccole sacche di resilienza per intaccare, dall’interno, un sistema fagocitante e invasivo. Il paradigma perfetto ce lo offre l’economista cileno Manfred Max-Neef, citato nel report di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo (non a caso insignita della Menzione d’onore): lo sciame di zanzare che soffoca il rinoceronte. E poi, come ci dice l’installazione dei Forensic Architecture al padiglione centrale, la nube che segue l’esplosione di una bomba contiene i materiali dell’edificio che ha appena distrutto: “è un edificio temporaneo in forma gassosa”.
Quindi rilassiamoci, che certo non spetta alla Biennale risolvere i problemi del mondo: è solo un mondo temporaneo, in forma di mostra.
Luana Labriola