Gillo Dorfles recensisce il padiglione americano, 33.a Biennale di Venezia, 1966
“Quattro tendenze molto attuali e molto diverse attraverso quattro personali di notevole rilievo sono l’apporto degli Stati Uniti alla 33.a Biennale. E le quattro tendenze si potrebbero definire – per amore di chiarezza – : quella “post-informale” della Frankenthaler, quella “post-painterly” di Oliotski, quella “oggettuale” Hard-edge di Kelly e quella più o meno “pop” di Lichtenstein. (…) La scelta fatta dunque dal commissario Henry Geldzahier per incarico della Smithsonian Institution di Washington sembrerebbe quanto mai accorta: eppure nonostante l’indiscusso valore dei quattro artisti, l’efficacia della manifestazione viene ad essere inficiata da una loro non sufficiente “aggressività”, da una loro, in certo senso, conformistica accettazione di schemi ormai correnti. Ecco perché, mentre nella precedente Biennale il folto gruppo dei pop da un lato e quello dei neoastratti dall’altro valse a colpire fortemente gli animi del pubblico e della critica: oggi, dopo tanto discorrere e tanto praticare la pop art, la nitida, quasi classica, sala di Lichtenstein non è stata sufficiente a commuovere gli animi, come del resto non lo sono state le pur delicate e soavi e magistrali tele di Helen Frankenthaler (ancora intrise di quell’alone di mistero che si poteva rinvenire in alcune delle migliori opere di Pollock o di Guston)”. (…)
D’ARS n. 3-4 anno VII, giugno/ottobre 1966, pagg. 25-27
A cura di Cristina Trivellin