Allestita al PAV (Parco Arte Vivente) di Torino, si è conclusa lo scorso 26 settembre la mostra dell’artista statunitense Brandon Ballengée, Praeter Naturam. Difficile collocare il suo lavoro se non se ne colgono le finalità, le intenzioni, le necessarie riflessioni che tale operazione innesca. Nella doppia identità di biologo e artista, Ballengée si dedica da diversi anni allo studio delle specie anfibie che nascono con particolari deformità agli arti. Tali deformità possono essere causate dall’inquinamento, ma nella maggior parte dei casi sono dovute all’evoluzione ecologica e ad alcune forme di parassiti che modificano le strutture articolari nei girini. Il parassita, dunque, interviene in un processo che si può definire “naturale” e che mette in primo piano il concetto di biodiversità. Questi fenomeni, del resto, erano già stati affrontati da Darwin nella teoria dell’evoluzione, dove, oltre ai concetti di selezione ed eredità, era presente quello di variazione, vale a dire ‘mutazioni casuali che possono essere positive o negative’.
Oggi si è scoperta anche l’esistenza di un meccanismo di regolazione genetica: l’ambiente può attivare o disattivare un particolare gene. Va da sé, quindi, che le mutazioni ambientali intervengono in tali processi. “Le rane e le salamandre -scrive il curatore Claudio Cravero- sono sensibili bioindicatori della salute ambientale. Sono sentinelle di guardia anche per l’uomo, e non perché la loro struttura di vertebrati ricordi l’ossatura umana, ma perché uomini e anfibi hanno un DNA molto simile, dunque ciò che danneggia e altera nocivamente l’ecosistema di questi animali può essere dannoso anche per l’uomo” .
L’operazione artistica avviene dunque quando Ballengée, durante i suoi viaggi di perlustrazione nei corsi d’acqua, trova questi piccoli anfibi deformi, li raccoglie e ne fa una scansione speciale in laboratorio utilizzando un processo chimico di compensazione e colorazione stampandole successivamente, (Iris Print) in scala aumentata, su carta da acquarello; le immagini prodotte appaiono tutt’altro che mostruose. Raffigurano esserini colorati di colori (dai colori e tagli colorati di colori) tristemente sgargianti, che inteneriscono per la loro fragile diversità: una diversità che fa riflettere sull’idea di perfezione, sull’illusione dell’omologazione a un modello prestabilito come unica possibilità di bellezza, di esistenza “normale”. Ballengée collabora per questa installazione con il poeta francese KuyDelair: ogni opera porta un titolo tratto da personaggi della mitologia greca. Promethéus, Sphinx, Deméter, Héphaistos, Médéa.
– Queste ranocchiette deformi vengono così immortalate come icone, inconsapevoli eroine strappate al loro un po’ crudele destino naturale per essere catapultate dall’uomo-artista in una dimensione mitica, estetica, elevate, salvate simbolicamente seppur non realmente. Già. Perché è ovvio che questi esemplari non sopravvivono. “Non sopravvivrebbero ugualmente, con quelle malformazioni”, risponde Ballengée alla mia domanda: “ma tu le uccidi?” E qui, molti si chiederanno se sia giusto fare arte con delle vittime. Forse, fuori da troppo comuni retoriche, sarebbe il caso di ampliare la questione chiedendosi se l’uomo abbia diritto di decidere quotidianamente il destino di tutto il regno animale e vegetale, sacrificando miliardi di vittime per la moda, la sperimentazione cosmetica e farmaceutica, l’alimentazione…
Praeter Naturae significa oltre, al di là della natura: dal punto di vista filosofico l’accento si pone sul concetto di alterità e ci fa riflettere sul quel divenire animale di cui parlava Gilles Déleuze come percorso alternativo di conoscenza, ripreso da Rosi Braidotti nel suo illuminante Trasposizioni sull’etica nomade,[1]: “l’asse di trasformazione del divenire-animale comporta la rimozione dell’antropocentrismo e il riconoscimento della solidarietà tra le specie sulla base del nostro essere in uno specifico contesto ambientale, vale a dire: incarnati, radicati e in simbiosi.” Occorre pensare l’alterità come parte integrante del mondo sensibile, fuori da canoni prestabiliti che ingannano e limitano da sempre l’umano percepire. Proprio in questo gesto artistico, se vogliamo demiurgico e fortemente antropocentrico, è contenuto anche il fallimento dell’antropocentrismo stesso, l’allarme sulla necessità di rivederne i limiti. Brandon Ballengée, del resto, ne è assolutamente consapevole. Si ripropone qui un discorso già affrontato negli articoli in cui (abbiamo parlato) parliamo di bioarte e pratiche artistiche sul vivente. Forse gli artisti, come antenne della società, sentono più forte tale urgenza e la manifestano nel loro fare, entrando nel vivo della materia, sostituendo la presentazione alla rappresentazione.
Accanto alle stampe, in mostra anche l’installazione Styx una sorta di bacheca trasparente in cui sono collocate nove capsule di vetro contenenti altrettanti esemplari di anfibi polimerici provenienti dall’Oregon.
Il titolo, sempre studiato il collaborazione con il poeta KuYDelair, è la traduzione inglese di Stige, il fiume che nella mitologia greca separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Gli esemplari, qui conservati in glicerina e retroilluminati, ancor più delle stampe ci colpiscono per la loro delicata fragilità: questi piccoli anfibi dalla costituzione transitoria e incompiuta che rimanda a forme fetali, parlano della natura, delle sue evoluzioni e di meccanismi non ancora totalmente svelati all’animale-uomo. Dinamiche difficili da afferrare quando di questo sistema relazionale si è fortemente parte e tuttavia si continua ad osservarlo “dall’esterno”. Eppure, se è vero che nelle nostre cellule sono contenute tracce di brodo primordiale, non è così strano se un lavoro artistico che enfatizza una presenza naturale ci faccia intuire una familiarità, una forte interdipendenza. Se l’umano è una rete di relazioni con il non umano, se i confini si fanno sempre più labili in presenza di una complessità dilatata e interconnessa, allora possiamo cominciare a ricominciare da capo, in un’altra direzione.
Un grande pensatore contemporaneo, il geniale teorico del pensiero complesso, Edgar Morin, in Amour, Poesie, Sagesse scrive: “le religioni della salvezza, le politiche della salvezza dicevano: siate fratelli, affinché saremo salvati. Io credo che oggi si debba dire: siamo fratelli, perché siamo perduti, perduti su un piccolo pianeta di periferia di un sole suburbano di una galassia periferica di un mondo privato di centro. Noi siamo qui, ma abbiamo le piante, gli uccelli, i fiori, abbiamo la diversità della vita, abbiamo le possibilità dell’umano. Ormai sta qui il nostro solo fondamento e la nostra sola risorsa possibile.”[2]
Cristina Trivellin
D’ARS year 50/nr 203/september 2010
[1] Rosi Braidotti, Trasposizioni sull’etica nomade, Luca Sossella editore,2008
[2] Edgar Morin, Amour Poésie Sagesse, Editiond du Seuil, Paris, 1997, pag. 47. Traduzione dal francese di CT