Eisenstein in Messico (in originale Eisenstein in Guanajuato) è l’ultimo film di Peter Greenaway (1942, Newport, UK) presentato al 66° Berlinale, (il Festival del Cinema di Berlino) e uscito in Italia lo scorso giugno. La pellicola è un’occasione per ripensare la carriera di un autore complesso ed eccentrico, spesso per questo molto criticato, nella cui produzione confluiscono tecniche e linguaggi eterogenei ma sempre caratterizzati da un’estetica neo-barocca. Il riferimento all’iconologia del Seicento e al suo grande teatro del mondo nasce dalla fascinazione per lo spettacolo e l’illusorietà, dal gusto per l’eccesso, per la ripetizione e l’enumerazione, per le metafore stranianti e bizzarre – la meraviglia di cui parlava Gian Battista Marino.
La folgorazione di Greenaway per Sergej Michajlovič Ėjzenštejn risale agli anni ’50, tanto che la sua prima mostra di pittura presso la Lord’s Gallery di Londra nel 1964 porta il titolo Eisenstein at the winter palace. Quello del regista sovietico è un linguaggio visivo fondato sul montaggio – il montaggio delle attrazioni – e non sulla parola, svincolato dal naturalismo e fatto dalla giustapposizione di elementi tra loro eterogenei, ben lontano dalla fluidità narrativa dei film hollywoodiani. Come scrive Greenaway, “è un cinema-cinema finalmente non più schiavo di una narrativa prosaica, saltellante e in continuo movimento con il serio proposito di correre come corre l’immaginazione degli esseri umani, producendo associazioni tra passato, presente e futuro, vecchio e nuovo, entrambi i lati del muro – come il Cubismo – che tanto influenzò l’avanguardia contemporanea russa nella pittura” (…).
Eleonora Roaro
D’ARS anno 55/n. 221/autunno 2015 (incipit dell’articolo)
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