Ipotizzare un nuovo futuro implica in un qualche modo una ridefinizione del passato sul quale possa modellarsi. Si tratta di un passato nuovo, che non si compone soltanto di una diversa interpretazione della storia, ma anche del tempo ancestrale del mito, di quel passato che non è mai stato presente. È così che possiamo ammirare le fenici di lamiera e ingranaggi pronte a spiccare il volo dai moli dell’Arsenale, poco distanti dal Padiglione della Cina?
Le due gigantesche sculture cyberpunk di Xu Bing sembrano parlarci di quest’esigenza che ha il tempo di ricostruire un proprio passato mitico a cui riferirsi per seguire la sua progressione. In questa nuova mitologia gli elementi della tradizione si polimerizzano con quelli della contemporaneità tecnologica, fondendo nella fattispecie due elementi che richiamano entrambi a un tempo indefinito e lontanissimo, mai esistito se non nell’anima. Da un lato l’araba fenice, l’uccello cosparso di fiamme che muore e rinasce in un ciclo infinito; dall’altro il retro-futuro del cyberpunk, il mondo discarica in cui ogni organismo diventa costrutto dell’industria meccanica, immaginario di chi ancora non conosceva il potenziale rivoluzionario del web che, sconvolta ogni previsione di registi come Shinya Tsukamoto, avrebbe portato l’effetto opposto di spingere il mondo verso la progressiva immaterialità del cyberspazio.
È incredibile il dialogo che si crea tra queste sculture, progetto speciale commissionato dalla Biennale, e il mondo futuro ipotizzato dal Padiglione Cina, a cura della ONG Beijing Contemporary Art Foundation. Con un taglio netto al pensiero razionalista, la Cina riscopre l’importanza del mito e della divinità.
Al passare dalle metalliche Fenici al padiglione, dal titolo significativo Folklore of the Cyber World, ci sembra di percorrere un unico sentiero lungo il quale questa strana coppia si declina in ogni opera esposta, fino a trovare il proprio acme nella video-installazione di Lu Yang. Un’opera d’arte tracotante che divora il padiglione con un sonoro violento e si estende per una notevole porzione della parete su cui si proietta. Il video ci presenta una parata di divinità post-moderne in cui uomini con indosso aureole dorate e armature si esibiscono in pose tradizionali dell’iconografia religiosa orientale. Gli uomini-dei contemporanei comunicano con il linguaggio dei mass media: inquadrature affollatissime di personaggi palestrati, effetti speciali pacchiani e una colonna sonora roboante.
Il risultato finale è un incrocio tra il blockbuster movie, i Power Rangers e un aura di “figaggine” (in mancanza di altri termini) che avvolge i protagonisti del Pantheon 2.0.
La nuova mitologia produce di conseguenza anche una nuova epica: gli dei del cyberspazio guardano dall’alto dei cieli il lavoro Wu Wenguang, The Caochangdi Workstation. Il videomaker mette in mostra il lavoro di quest’omonimo collettivo che ha permesso agli abitanti di alcuni villaggi di filmare documentari sulle proprie vite, fornendo gli strumenti e la preparazione necessari per girare i film in autonomia. I vari video diventano tasselli che portano alla luce una narrativa nascosta, una storia comune che era sempre stata soffocata dalla disparità sociale, economica e tecnologica che divide Pechino e le sue classi dominanti dalla grande fetta di popolazione delle aree rurali cinesi.
Tramite un ripensamento totale del rapporto tra tecnologia e tradizione il padiglione cinese sembra rispondere alla chiamata di Okwui Ewenzor in modo forte e chiaro: gli dei non sono mai morti, eravamo noi a non averli mai compresi. Continuano a vivere nel nostro futuro così come hanno abitato il passato, adattandosi ai cambiamenti piuttosto che opporvisi. Le fenici ormeggiate sui moli dell’arsenale come vascelli stanno per salpare portando in trionfo le divinità del mondo futuro, alla volta del cibernetico iperuranio.
Francesco Pieraccini