Mi guardo e già non mi riconosco. Ogni opera di Nicola Samorì, esposta al Mac di Lissone, è un graffio che lacera la nostra pelle, un foro entro cui collassa la forma umana di una carne mutante che ci sopravvive in quei brandelli di materia che qui sentiamo di essere senza riconoscerci. Siamo di fronte a corpi mozzati, aperti, ritorti, combusti, figure umane violate, decomposte, volti tumefatti, deteriorati, informi. Ammassi materici che ci costringono ad assistere agli stadi decompositivi della nostra carne aldilà dell’uomo che siamo stati per un attimo.
In Lienzo, la figura dipinta si ripiega su se stessa in pelle liquefatta che sgorga dal supporto. Nella serie di teste deturpate, come ne Gli occhi nel petto, attraverso il volto corroso emerge la trama organica che preme sotto la pelle fragile e l’atto abrasivo inflitto dall’artista cristallizza in immagine l’oltraggio costante a cui è sottoposta una forma dai tratti cangianti. Un volto, dunque, che si rivela caduco, cedevole e che qui vediamo in balia delle imprevedibili mutazioni della carne anonima che incessantemente lo rimodella, decompone, riscrive, sfigura fino all’irriconoscibile, facendolo collassare lentamente, come gli occhi nel petto, verso nuove identità, nuovi volti oltre l’umano. E l’inquietante fermo immagine sul travalicamento dell’umano ormai disciolto diviene, quindi, potente rinvio alle derive postume della nostra carne che ci sopravvive, che ci trapassa in quanto stadio temporaneo del suo eterno divenire altra.
In Vierge noire ci troviamo davanti a un corpo contorto, dall’umanità carbonizzata e ridotta a un tizzone di carne ardente, così irriconoscibile, eppure così nostra. Dunque, si rafforza la difficile constatazione, a cui l’artista ci conduce, di essere solo uno degli innumerevoli transiti della materia cieca e immemore che ci intrama, ma anche una piega di lucidità nella carne, che in noi diviene consapevole della sua inarrestabile trasformazione.
Ne Il Vizio della Croce un torso scorticato è l’estremo residuo di un Cristo crocefisso, di una figura umana che non può risorgere identica, ma sempre altra nelle vite oltreumane della carne che la abita. L’opera pare, così, denunciare e al contempo redimere dal vizio della forma, che si sa mortale, di crocefiggersi sacralizzandosi in un’immagine inviolabile di sé, nell’illusione vana di conservarsi e contenere la materia carnale che lentamente la disintegra, la ridefinisce, nutrendosene da dentro. Ma l’affascinante spettacolo della metamorfosi della carne, che i lavori esposti ci offrono, diviene anche un invito a liberarci dal vano sforzo conservativo e ad assecondare tale processo incontenibile, cogliendo il vantaggio insperato di essere un corpo mutante, il cui incessante de-comporsi, contaminarsi e divenire altro apre alle infinite modalità di essere che sempre lo attendono, ora in questa nostra esistenza e oltre di noi.
Martina Piumatti
INTUS: CRISTALLI DI CRISI – NICOLA SAMORÍ
a cura di Alberto Zanchetta
Museo d’Arte Contemporanea, Lissone
10 maggio-15 giugno 2014