La natura morta è un tipo di composizione che si lega ai concetti di nobiltà e prosperità. Le composizioni di frutta e oggetti dei pittori fiamminghi erano in un certo senso il ritratto del committente: espressione della sua ricchezza tanto materiale quanto intellettuale. Uno stile che si sposa istintivamente col mecenatismo, investire nell’arte tanto quanto nella propria immagine: ecco allora il richiamo alla morte, spesso ricorrente nel genere, o alla sua sconfitta piuttosto, dato che l’arte ha imprigionato per sempre il momento di massimo splendore dei frutti, della selvaggina, dell’oggettistica dipinta e dell’uomo ad essi legato.
Si parla di tanto tempo fa. I marchesi Antinori, da mecenati contemporanei, ci aiutano a capire cosa significa oggi confrontarsi col tema in STILL-LIFE Remix, mostra a cura di Ilaria Bonacossa, ospitata dal 4 luglio al 4 ottobre all’interno della cantina Antinori nel Chianti Classico, a Bargino (FI).
Notiamo subito che le opere esposte, circa quaranta lavori di 26 artisti italiani e non, non si trattano di commissioni ad hoc, se non nel caso del wall painting di Nicolas Party. Natura morta dunque che non si lega più all’ordine specifico del committente, ma piuttosto a un’idea del nuovo rapporto che si instaura tra arte contemporanea e mecenatismo. Sostenere la ricerca artistica significa legare la propria attività, i propri prodotti, a nuovi valori: innovazione, impegno civico, rinnovamento culturale. La natura morta contemporanea rappresenta l’occasione non tanto di raccontare i propri successi e prestigio, ma si inserisce all’interno di un discorso più ampio che oscilla tra il marketing e la passione: dato che esistono molti altri modi di comunicare gli stessi valori, la scelta dell’arte ha indiscutibilmente anche un carattere personale.
Volendo passare in rassegna la curatela e i lavori nello specifico, la mostra si compone sia di nomi già noti, Vitone, Feldmann, Gusmao e Paiva, Gilardi, sia di emergenti, questi ultimi forse anche più degni di nota dei primi. Alcune opere risultano decisamente efficaci: è di Ori Gersht un video in slow motion in cui un proiettile fa esplodere un melograno all’interno di una composizione di frutti in pieno stile secentesco. Splat! E tutti i chicchi e il succo che volano da ogni parte.
Molti spunti che ricordano Bill Viola, ma con una decisa nota desublimante che carica il lavoro di ironia facendo a meno della pesantezza del maestro della video art. Ci sono lavori molto toccanti, come last meal on death row, una serie di fotografie di Mat Collinshaw che immortala gli ultimi pasti richiesti dai condannati a morte o Ascensione di Francesco Gennari: un’opera multi strato in cui quattro gusci di lumaca sorreggono una piastrella di vetro scura chiazzata di bianco, come se fosse un cielo stellato che minaccia di schiacciarle. Tre opere tra loro molto differenti in intenti, sensibilità e vicinanza col tema che mi danno spunto per parlare di una pecca che ho avvertito: la mancanza appunto di un più forte legame tra i lavori esposti. Le opere scelte sembrano più sperimentazioni individuali sullo stesso argomento, improvvisazione su base, piuttosto che componenti di una narrativa più unitaria. Scelta curatoriale di per sé legittima, ma che rinuncia alla possibilità di creare un dialogo più stretto tra i vari lavori che restano così relativamente isolati l’uno dall’altro. Così come si isolano dal contesto: la sala espositiva è di fatto un white cube installato all’interno della cantina, piccola delusione questa se uno pensa alla prospettiva di installare i lavori direttamente negli spazi dello stabile, come già era stato fatto per altre commissioni come l’installazione di Yona Friedman all’ingresso o le sfere fluttuanti di Tomàs Saraceno che accompagnano la discesa verso le cantine: il contesto in questo caso crea un effetto estremamente suggestivo relazionandosi perfettamente con le opere.
Francesco Pieraccini