Working class style: le ultime tendenze moda mostrano frequenti ispirazioni rubate alla classe operaia e alle periferie: un segno di attenzione o un’appropriazione culturale ambigua?
La moda contemporanea promuove e fagocita tendenze con sempre maggiore velocità, ma la scena che attualmente ha più influenza sui creativi è quella legata alla classe operaia delle periferie. La tradizionale “volubilità” del termometro delle novità è la necessità del sistema moda di “cambiare per non morire” ogni pochi mesi, se non settimane, ed è diventata pari al tempo che ci vuole per aggiornare un feed Tumblr o una pagina Instagram. In questo vortice, complice anche l’ennesimo e ciclico ripescaggio dai decenni passati (i ‘90), uno spettro si aggira [nuovamente] per l’Europa: l’infatuazione per “il working class style” e lo streetwear senza i quali la moda non sarebbe quello che è ora.
Se fino a tutti gli anni ’80 la moda è stata esclusivamente aspirazionale e promuoveva un’immagine patinata, la successiva e seconda Brit Explosion – la “Cool Britannia”di Tony Blair ma soprattutto di Blur e Stone Roses – porta con sé uno stile che ha qualcosa della grinta e dello scetticismo della vera classe lavoratrice, con in più un retaggio da supporter calcistici e di abbigliamento sportivo a “basse prestazioni tecniche”: con i pantaloni della tuta si va al pub o alle partite, un’immagine lontanissima dall’ideale di performance estrema dei brand dello sportswear globale.
L’abbigliamento delle città del Nord dell’Inghilterra approda nei video, sui palchi dei concerti e al cinema, con toni da commedia in Gran Bretagna, e in modo più drammatico in Francia: La Haine di Mathieu Kassowitz è un film del 1995 che sembra girato ieri, un film politico senza mediazioni che mette in scena la tensione delle banlieue e l’inevitabile scontro che si sta generando. E lo fa con un’estetica realistica e allo stesso tempo elegante nelle simmetrie e nei contrasti del bianco e nero, nelle figure stilizzate dei protagonisti su sfondi architettonici spigolosi che riportano al linguaggio della Nouvelle Vague. In un certo senso è un film mainstream, ha successo e inevitabilmente influenza.
A distanza di un paio di decenni sulle passerelle maschili si vedono camicie a maniche corte portate aperte su t-shirt a maniche lunghe, le giacche delle tute da ginnastica, loghi giganteschi quanto quelli degli sponsor sportivi e jeans infilati nei tubolari come per i giovani chav londinesi e i gopnik, i post adolescenti della lowerclass russa.
Lo sdoganamento definitivo di questo movimento di stile inconsapevole arriva in gran parte dall’ex oltrecortina e da uno stilista, Gosha Rubchinskiy, nativo di Kaliningrad.
Che il mondo post-sovietico generasse fenomeni di hype stilistico era nell’aria: si tratta di un grande mercato e bacino culturale le cui avanguardie storiche hanno segnato abbondantemente l’immaginario occidentale. Ma si pensava piuttosto, fino a qualche anno fa, a estetiche retrofuturiste e massimaliste che nulla hanno in comune con quanto è effettivamente emerso, un casual estremo e proletario che combinato con i look da strada delle periferie dell’Est assume uno strano fascino esotico.
Gosha Rubchinskiy è sostenuto da Comme des Garçons, per gli aspetti commerciali e distributivi del suo marchio, e in vista dei Mondiali di calcio in Russia del 2018 si è aggiunta una collaborazione con Adidas, giusto per dare un’idea della portata dell’operazione.
Il look da strada, o meglio, quello che in teoria sarebbe un “non look”, è al centro dei desideri mentre fino a poco fa sarebbe sembrato tamarro in contesti appena leggermente più formali rispetto alla corsa al discount per l’acquisto di generi primari.
Quanto è elevato il tasso di scorrettezza culturale nell’ispirazione, o appropriazione che dir si voglia, di questa estetica “di necessità” che diventa l’ultima frontiera del lusso attraverso il filtro degli addetti ai lavori? Perché uno “stile” di abbigliamento tanto negletto è diventato lo stile del momento? La moda è un catalizzatore di tendenze e istanze contemporanee, che, reinterpretate, acquisiscono una propria originalità. Ma tutto quanto arriva dalla strada aggiunge una nota di autenticità, utile al rinnovamento, e di concretezza più facilmente comprensibile ai consumatori rispetto a tendenze maggiormente astratte.
Tuttavia dietro tutto ciò ci può essere un’implicazione culturale più sottile: l’appropriazione – se la si considera tale – può rappresentare una sorta di gioco per chi, pur non vivendo un reale disagio sociale, attraverso questa rappresentazione di sé acquisisce una sorta di nuova freschezza di immagine.
Ovviamente non si può ridurre tutto il lavoro di progettazione al semplice “sedersi sulla riva del fiume” e aspettare che passi qualcuno con un’idea da carpire, ma in un momento nel quale i designer faticano a imporre stili ed estetiche svincolati dal ricatto della nostalgia, questa incursione si può forse considerare un flirt rigenerante con il proprio opposto. E la sottile ambiguità che intercorre fra “ispirazione” e “appropriazione” non sarà mai del tutto sciolta.
Claudia Vanti