All’inizio di un nuovo mese di sfilate nelle quattro capitali ci si domanda se la tendenza al “genderless” sarà confermata. Tutto, nelle moda e nella cultura pop, sembra andare in quella direzione
Una delle tendenze moda più evidenti delle ultime stagioni è stata l’improvvisa diffusione di abiti genderless (che ignorano, cioè, le differenze di genere). Se marchi concettuali come Rick Owens e Rad Hourani (che merita un discorso approfondito) o di ispirazione street come HBA e Yeezy lo hanno fatto per anni, ora anche Gucci presenta bluse morbide con il colletto a nastro per i ragazzi, e lo fa in “co-ed” show.
Il tema non è relegato alle passerelle, esperimenti di collezioni genderless si sono visti tanto in stores di lusso come Selfridges che nei colossi del fast fashion come Zara, ed offrono un’alternativa neutra alla classica dicotomia fra capi maschili e capi femminili.
L’idea della distinzione netta fra un abbigliamento maschile e uno femminile è ancora profondamente radicata nel mondo occidentale – ma arbitraria – di fatto sancita dall’avvento della rivoluzione industriale e della società borghese.
L’esperienza di innumerevoli persone mostra però che il sesso e il genere non sono rigidamente binari, e a identità fluide o non definite corrisponde il bisogno di un codice di abbigliamento che non sia un semplice sconfinamento nel territorio opposto o un’appropriazione, ma un’estetica che, come molti millenials, si riconosca in uno spettro ampio di generi: un morphing visivo che accompagni il corpo al di fuori delle identità codificate.
Rad Hourani è un designer (ma anche fotografo e videomaker) che ha già nella propria origine (giordana, siriana e canadese) i tratti di un’identità composita. Nel 2007 ha creato la collezione UNISEX, nata, nelle sue parole, da “un’osservazione attenta dell’umanità“: “Ho iniziato a creare con una sensazione di curiosità e di innocenza guidato dal mio backgorund/non-background: nessuna scuola, nessun insegnante, nessuna nazione, delimitazione o formazione. Mi piace l’idea di un mondo che potremmo vivere e modellare su noi stessi soltanto osservandoci fra di noi. I miei progetti visivi scaturiscono da questo mio mondo. Sono genderless, ageless e limiteless e non derivano da nessuna nazione, razza o religione, anche se possono trovare casa ovunque. Rivelano uno stile senza tempo per individui non conformisti”.
Una visione che è anche uno statement, e trova riscontro in percorsi analoghi nell’arte, nel costume, nella musica e nel video, artisti che rivedono le basi dei nostri sistemi sociali, religiosi, sessuali e politici perché, proponendo la neutralità come una nuova visione universale, ci mostrano che esistono ancora corpi, culture e musiche “scandalosi” e destabilizzanti.
Il corpo queer, per parte dell’opinione pubblica, costituisce ancora un “problema”, e parte del problema è anche ciò che questo corpo indossa.
Arca (Alejandro Ghersi) è un musicista, producer e dj ventisettenne di origine venezuelana che si è imposto all’attenzione internazionale negli ultimi cinque anni sia per la ricerca in campo musicale che per l’immagine e l’uso del proprio corpo con i quali questa è coniugata.
Dal punto di vista musicale si può citare una recensione di Valerio Mattioli apparsa sul mensile Blow Up (dic. 2016), secondo la quale “i brani sono estenuanti session di morphing audio che seguono traiettorie mai prevedibili […] e danno l’impressione di osservare al microscopio qualche microorganismo che disperatamente tenta di darsi una forma compiuta, quasi sempre fallendo e infine accettando una condizione di indeterminatezza che è al contempo orgogliosa dichiarazione di alterità”. Già da ciò si capisce come l’identità mutante sia un elemento costitutivo della personalità creativa di Arca.
Il sodalizio con l’altrettanto giovane videomaker Jesse Kanda (già collaboratore di Comme des Garçons, Margiela e del fashion e-store SSENSE) gli permette di assecondare visivamente il proprio corpo con abbigliamento fetish e underwear femminile, tacchi a spillo lontani anni luce dall’immaginario drag e fragilità esibite, in uno stato di perenne trasformazione per il quale il morphing diventa una tecnica di costruzione del sé al di fuori degli stereotipi canonizzati (eterosessuale, bianco, maschio, e, in questo caso, di estrazione altoborghese). Una ridefinizione del proprio corpo che trova esempi celebri – e letterali – anche in ambito artistico, come nel lavoro di Orlan.
Da una parte quindi moda e musica, come molte altre volte in simbiosi, proseguono su una strada che porta all’indefinito e a una neutralità che peraltro contiene mille sfumature; dall’altro l’ipertrofia degli artifici visivi e la tendenza a mischiare e sovrapporre di una cultura pop – moda compresa – più massimalista e mainstream trova una via alla fluidità di genere nello scompaginamento dei fattori.
Capi “rubati” al guardaroba dell’altro sesso (partendo da un dress code assolutamente binario), mischiati senza alcun preconcetto: questa è la formula che ha reso l’attuale Gucci di Alessandro Michele un assoluto blockbuster. L’incremento di fatturato del 54% circa nei primi 3 mesi del 2017 è dovuto certamente anche ad altro, agli accessori e a un gusto spregiudicato per la decorazione facilmente apprezzabile da un pubblico ampio al di là dell’immagine genderless. Ma un marchio così famoso non fa nulla per caso, tantomeno a livello di comunicazione, e allo stesso tempo esercita una qualche influenza sull’immaginario globale.
La tendenza all’appropriazione e al mix dei capi di vestiario ha radici lontane quasi quanto la codificazione rigida dei guardaroba per uomo e per donna. Nell’arte, nello spettacolo e nella moda.
Da George Sand all’artista Gluck (Hannah Gluckstein), che negli anni ’20 “ribrandizzò” sé stessa con un nome non riconducibile a un sesso, sono molti gli esempi di figure cruciali per il mutamento dell’attitudine verso l’androginia e i discorsi di genere. Figure che hanno marcato la storia del costume, proprio come Gluck, che ha influenzato i socialities della propria epoca e Hollywood, in primo luogo Katharine Hepburn.
Probabilmente l’appropriazione è più facile da assimilare, c’entra anche una dimensione ludica del trasformismo che la rende più accettabile socialmente. E i numeri di vendita dell’abbigliamento, la differenza fra la nicchia di Rad Hourani e il monster selling di Gucci, lo confermano. Quello che è certo però è che entrambi i modi di affrontare il genderless appaiono irrinunciabili e necessari. Almeno fino a quando non ci sarà più bisogno di porsi il problema.
Claudia Vanti