La mostra 200 anni di arte Manga – curata da Isao Shimizu presso la Rotonda della Besana -celebra i fumetti giapponesi e la loro storia in occasione della prima edizione del Milano Manga Festival dal 3 maggio al 21 luglio 2013. Il termine manga viene dai kanji man, “libero”, “stravagante” e ga, “immagine” e significa disegni schizzati in modo casuale e spensierato. Costituiscono una modalità di narrazione per immagini creata in un humus culturale molto diverso dal nostro. Proprio per questo permettono di comprendere le idee, i valori e le tradizioni dei giapponesi stessi, soprattutto ora che sono un genere popolarissimo in tutto il mondo (e non più come genere di serie B) e ispirarono a loro volta la cultura e le arti visive. Si pensi infatti alla pittura super flat e ai mostri di Murakami, all’estetica zuccherosa e infantile del kawaii, all’invasione di personaggi super deformed, all’immaginario cyborg dei robottoni, o a progetti come No ghost just a shell di Philippe Parreno e Pierre Huyghe. L’influenza del Giappone non è una novità. Già l’Esposizione Universale di Parigi del 1867 aveva dato vita a un particolare gusto, il japonisme: l’Europa era rimasta affascinata dalla raffinata arte decorativa nipponica e dagli ukiyo-e, le pitture del mondo fluttuante che ritraevano le attività e i piaceri effimeri della società del periodo Edo. Artisti come Van Gogh, Renoir e Klimt si ispirarono alle stampe giapponesi, soprattutto alle xilografie Trentasei vedute del Monte Fuji di Hokusai. Sempre Hokusai influenzò Picasso e Klee con le sue guide al disegno in cui l’immagine era scomposta in cerchi piani e altre figure geometriche, gli Hokusai Manga.
Hokusai (1760-1849), adottato da bambino e privato dell’affetto dei genitori, si dedicò alla pittura dall’età di sei anni. Da giovane trascorse il suo tempo libero studiando e copiando con assiduità e costanza quasi maniacale le illustrazione delle pubblicazioni sul mondo fluttuante e la stampa del teatro Kabuki, dove l’attore veniva visto in modo stilizzato ma realistico. Il disegno era molto diffuso già in quegli anni, grazie ad un elevato tasso d’alfabetizzazione e una normale predisposizione del popolo giapponese, per il quale saper dipingere non è molto diverso dal conoscere il sillabario. Hokusai studiò la pittura cinese, i libri d’anatomia olandesi e il disegno prospettico occidentale. Era un personaggio eccentrico: cambiò domicilio 93 volte e adottò una trentina di pseudonimi differenti, tra cui Sori, Taito, Iitsu, Manji. Hokusai, nome col quale è più noto, è un’abbreviazione di Hokutosai o Hokushinsai, che significa Studio della stella settentrionale. Esso deriva dal credo dell’artista nella divinità Myoken, incarnazione della Stella Polare, meta fissa ma irraggiungibile, verso la quale tese per tutta la vita. Il vecchio pazzo per la pittura era ossessionato dall’idea di padroneggiare la propria arte, che viveva come percorso di autoanalisi e una forma di autoeducazione. Hokusai era un uomo, e come tale un essere finito in un universo infinito. Sapeva che l’opera d’arte, pur nella tensione alla perfezione, rivela la sua frammentarietà e la sua incompletezza, in quanto manifestazione di una limitata visione del mondo; tuttavia cercava di trascenderne i limiti, ricercando una realtà superiore a quella del mondo ordinario –un mondo mutevole, incostante, sempre in movimento. Così ritraeva nel dettaglio tutto ciò che esisteva in natura: oggetti, esseri viventi, creature immaginarie e figure storiche. Inoltre era particolarmente attento alla molteplicità delle espressioni umane, e spesso i suoi schizzi ritraevano le persone in più movimenti consecutivi. Gli Hokusai Manga, oltre ad una guida al disegno, sono quindi un’enciclopedia della vita, delle storie, delle leggende, dei proverbi e frasi idiomatiche dell’Estremo Oriente. Pubblicati per la prima volta nel 1814 e distribuiti su sessantaquattro anni, sono un’opera monumentale in 15 volumi, per un totale di 970 pagine e oltre 3900 disegni.
Nonostante le evidenti differenze rispetto ai manga di oggi, dove la frammentarietà del singolo schizzo ha ceduto il posto alla narrazione per immagini, esistono anche delle somiglianze fra le due forme espressive, come la presenza di disegni divertenti. Questi derivano dai libri comici illustrati, dal genere del bozzetto arguto, delle caricature e illustrazioni comico-satiriche (giga) in aperta polemica con gli avvenimenti dell’epoca. Ad esempio nel 1868, ultimo anno del Giappone pre-moderno, in piena guerra Boshin si diffusero i Kodomo asobi-e (“Trastulli di bambini”), ukiyo-e caricaturali in cui le informazioni erano proposte al pubblico in forma allegorica sotto le sembianze di guerre di bambini. Così come infinita era la varietà umana ritratta da Hokusai, la cui pittura bi-dimensionale e le pennellate veloci inevitabilmente hanno influenzato generazioni di mangaka, così oggi infiniti sono i generi, le storie e le tematiche che vengono trattate nei fumetti giapponesi. E la mostra ne passa in rassegna numerosissimi: dalle opere di Tezuka Osamu (Astro Boy, Kimba il Leone Bianco) a quelle di Takahashi Rumiko (Lamù, Ranma ½), da classici come Ken Shiro a produzioni più recenti come Death Note. In questi fumetti il legame con la tradizione e con le leggende del passato è spesso molto forte, come dimostrano le infinite versioni di Genji Monogatori, classico giapponese dell’undicesimo secolo. Gli shojo (i manga per ragazze), di cui Ribbon no Kishi (“La principessa Zaffiro”) di Tezusa Osamu è il primo esempio (1953), nascono dalla fascinazione per il teatro di sole donne Takarazuka, da cui deriva il topos del travestitismo. Negli anni Venti e Trenta le attrici che interpretavano ruoli maschili (le otakoyaku) favorirono la femminilizzazione degli uomini e la mascolinizzazione delle donne, creando così nuovi modelli sociali. Si pensi quindi a personaggi che nascondono la loro identità sessuale come Lady Oscar o a ragazze guerriere (senshi) come Sailor Moon. Negli shonen (i manga per ragazzi) da Mazinga Z a Neon Genesis Evangelion è invece fortissimo il legame con l’iconografia dei samurai: le trasformazioni dei robot ne ricordano la vestizione, le loro corazze sono essere modellate su antiche armature. Le armi di combattimento appartengono alla tradizione: sono alabarde (naginata), spade (katana), catene (kusari). L’identità dei guerrieri del futuro, i cyborg, non appartiene a un individuo, ma è immersa in una rete di relazioni, come nel buddismo, in cui nulla è slegato (engi, origine dipendente). E ancora, mostri come i Pokémon derivano dalla yokaigaku, la teratologia nipponica. I manga sono quindi un modo per reinventare miti e parlare di ciò che appartiene profondamente a una cultura. Un modo per costruire il futuro partendo dalle radici e creare così nuovi immaginari.
Eleonora Roaro
D’ARS year 53/nr 214/summer 2013