La quarantaduesima edizione del Teatro Aperto di Pergine inaugura con il monologo Odiare Medea di Giuliana Musso, che pone l’accento sull’identità di genere e mette in scena una riflessione sullo storico passaggio dal matriarcato al patriarcato
Perché c’è la guerra? Considerare l’economia di guerra connaturata alla condizione umana è un’ipotesi priva di fondamento scientifico. (da Odiare Medea – Il sogno del patriarcato)
Il festival Pergine Spettacolo Aperto inizia idealmente così, con le incisive domande di Giuliana Musso nel suo Odiare Medea – Il sogno del patriarcato. Il tema del cartellone, intitolato Chimere, è l’identità di genere e l’attrice de La Corte Ospitale porta il suo contributo, incorniciando il teorema “patriarcato uguale violenza” dentro un’indagine antropologica, storica, etnografica.
Sul palco del teatro comunale di Pergine (TN), accanto al suo leggio c’è quello della cantante Claudia Grimaz che ci distoglie dalla crudezza del testo argomentativo per emulsionare di poesia caratteri da cronaca. Non è il teatro civile del primo Marco Paolini ma ci assomiglia; non ne è nemmeno la versione più edulcorata perché “femminile”. Anzi. Se certo teatro civile si compiace della propria retorica, quello di Giuliana Musso trasforma la ricerca in testimonianza di cui l’attrice stessa è portatrice, quasi oggettiva, neutrale. Il suo teatro, che parli di preti o di figli morti in guerra, si svuota dell’ingombro dell’Io per ascoltare parole diventate fatti e fatti che ci invadono di responsabilità.
Odiare Medea non è un monologo sulla moglie di Giasone letta con gli occhi (e la penna) di Christa Wolf ma è un capitolo di un discorso condiviso, di un dialogo comunitario tra spettatori e attrice.
Così, imperterrita e immune ad una eventuale lungaggine e agli scricchiolii insofferenti tra le sedie della platea, la Musso fa precedere alla vicenda di Medea un excursus sul passaggio dal pacifico matriarcato al violento patriarcato. Il discorso si consolida sui testi di Riane Eisler, Maria Gimbutas, Fritjof Capra, Rosalind Miles e infilza la storia su punte di domande. Dubbi, sollecitazioni che non rimangono testo ma si fanno esperienza concreta, reale e per questo viva e vera. Il teatro è questo rito che non ammette virtuosismi ma solo contenuti.
Il problema non è Dio, ma l’uso che se ne fa, come per i metalli, non furono loro l’inizio della sventura ma l’uso che cambiò, da gioielli a spade. Felice era Creta, civiltà matriarcale. Poi il patriarcato fermò con la violenza il progredire pacifico delle antiche società matrifocali. Da allora prevalgono modelli androcratici di convivenza, che si costituiscono attraverso rigide gerarchie di potere, utilizzano la forza come principio di giustizia, adorano un dio maschio che ha generato un figlio maschio, controllano e regolano la vita sessuale e riproduttiva, impongono la supremazia della ragione sui sentimenti, dell’anima sul corpo, dell’ideale sul concreto, del maschile sul femminile – scrive e recita Musso.
Medea è una vittima, una tra tante di tutto ciò. E il testo di Euripide la rende matricida. La penna ferisce come la spada perché ha scritto le norme del patriarcato, le leggi che hanno condannato Medea ad un esilio ingiusto.
Musso sopporta sulle sue spalle il portato di ciò che vede e sente, lo condivide con noi per farne motivo di unità e ricucitura di una ferita antica.
Simone Azzoni
Pergine Spettacolo Aperto, dal 7 al 15 luglio, Pergine Valsugana (TN)