In corso a Venezia presso Palazzo Grassi la prima retrospettiva al di fuori dei confini francesi di Martial Raysse (Nizza, 1936) con 350 opere tra dipinti, neon, video e sculture. L’esposizione, ideata da Caroline Bourgeois in stretta collaborazione con l’artista, ne ripercorre la carriera evidenziando la continuità tematica tra periodi distanti tra loro nel tempo, ovvero il lavoro della pittura, il rapporto con la storia dell’arte, la politica, il ruolo dell’artista. La corposa produzione pittorica, che va dai ritratti di donne del periodo pop alle composizioni più recenti ispirate ai maestri del passato, evidenzia non solo l’attenzione al metodo e alla poetica, dove l’esercizio della pittura è una pratica quotidiana in contino perfezionamento, ma anche la volontà di mantenere la propria indipendenza, auto-dichiarandosi homme de gauche durante gli sconvolgimenti politici dell’Europa del dopoguerrra.
A partire dal 1959, Raysse abbandona l’estetica astrattista e informale del primo periodo e inizia ad appropriarsi degli oggetti della società consumistica per accumularli in assemblaggi stravaganti e ironici. Nel 1960 si trasferisce con Yves Klein e Arman a Parigi, dove il critico Pierre Restany sta dando vita al movimento del Nouveau Réalisme, del quale firma il manifesto. In quell’anno realizza la scultura-assemblaggio Étalage, hygiene de la vision, in cui l’immagine di una donna sorridente, protagonista di una campagna pubblicitaria, è appoggiata a uno scaffale pieno di merci legate alla pulizia domestica. Inizia così un nuovo ciclo di lavori in cui l’artista critica le contestazioni che attraversano la Francia e sulla scia delle riflessioni di Guy Debord sulla Sociétè du spectacle diagnostica una mania collettiva del nuovo e del pulito, che rappresenta metonimicamente la Francia e che ha come epicentro la figura femminile. […] tutta l’arte contemporanea specula sull’istinto di conservazione, sulla nostra commozione di fronte al deterioramento delle cellule. Solo il nuovo è asettico;
igienico, inossidabile. L’immateriale è interessante, e poi la scultura contemporanea è in lutto. La plastica è il colore nella massa, nella carne, il Congo, Cape Canaveral.1
Nel 1961 tuttavia a causa dell’opera Untitled viene espulso dal gruppo dei nouveaux réalistes: è un’immagine di una donna presa da una rivista con delle piume di pavone al posto dei capelli e un rossetto rosso-arancio sulle labbra. Come afferma l’artista: La fotografia per me svolgeva una funzione di collegamento, che inizialmente assunse le sembianze dei volti stereotipati delle ragazze della pubblicità, i leitmotiv della nostra cultura visiva. Attraverso questi volti si realizza una forma di comunicazione primaria, capace di trascendere le formule preesistenti.2 Nel 1962 crea l’installazione Raysse Beach, un vero e proprio ambiente balneare, l’idillio della società dei consumi. Ingrandisce in scala 1:1 alcune fotografie pubblicitarie tratte da cataloghi di costumi da bagno, per poi ritoccarle con colori brillanti e aggiungervi pezzi di collage. Ri-crea così un mondo asettico, dominato dalla luce al neon e dai prodotti in plastica. Nel 2012 indaga nuovamente il tema della spiaggia, con uno sguardo meno ottimista: nel dipinto dai colori acidi Ici plage, comme ici-bas mette in scena l’umanità intera, con le sue contraddizioni e banalità.
Nel 1963 si trasferisce a Los Angeles, continuando a spostarsi fino al 1968. Continua a creare installazioni in cui dialogano linguaggi tra loro diversi, dal collage al neon all’assemblaggio, ed è tra i primi a sperimentare con l’immagine in movimento. Per esempio nel 1964 proietta un film con il suo amico Arman sul quadro Suzanne, Suzanne, in un dialogo tra le due opere; oppure nel 1967, dopo l’esperienza presso la ORTF, la radio-televisione francese, crea installazioni a circuito chiuso, come l’ironica Identité, maintentant vous êtes un Martial Raysse.
Realizza anche film sperimentali, come il lungometraggio Jésus-Cola del 1966, una critica paranoica alla società dei consumi, ed è tra i primi a usare le tecnologie video. Sperimenta con i colori, con il contrasto e con il montaggio: in Portrait électro machine chose (1967) elimina tutti i grigi; in Le grand départ (1972) il negativo a colori fa sparire il volto degli attori; Homero Presto è una favola moderna che l’artista descrive come un condensato dell’Odissea (Odissea in 8 minuti).
Deluso dall’ambiente artistico americano nel 1968 torna in Francia e si ritira in campagna dedicandosi alla pittura, inaugurando una nuova fase. Come scrive Didier Semin nel suo intervento sul catalogo della mostra negli anni sessanta e ottanta, Martial Raysse ha effettivamente rinunciato a una certa logica della fuga in avanti della quale le avanguardie del XX secolo avevano fato, in arte, il proprio credo, per concedersi il lusso della riflessione, dell’osservazione, dell’apprendistato e del rispetto dei propri sentimenti” Forse meno interessante e di rottura, ma comunque coerente con la sua visione del mondo e dell’arte.
Eleonora Roaro
Martial Raysse
a cura di Caroline Bourgeois
Palazzo Grassi, Venezia
fino al 30 novembre 2015
www.palazzograssi.it
1 Martial Raysse, L’École de Nice à la Biennale de Paris, in <<Sud Communications>>, 4, ottobre-novembre 1961, p. 23)
2 Martial Raysse, in Jean-Jacques Lévêque, “La beauté, c’est le mauvais goût”, Arts (Paris) (giugno, 16-22, 1965), p. 39