Sabato 19 settembre è andato in scena al Teatro Olimpico di Vicenza La prima lettera di San Paolo ai corinzi, opera teatrale di Angelica Liddell / Atra Bilis Teatro che ad ottobre sarà con una nuova prima nazionale al festival Romaeuropa. Ecco la recensione di Simone Azzoni
Uno scandalo annunciato. Solo apparentemente in realtà. L’ultimo pezzo del Ciclo delle Resurrezioni è andato in scena in prima nazionale all’Olimpico di Vicenza con uno strascico di polemiche, proteste (dei cattolici tradizionalisti) e provocazioni usate come spot. Ma La prima lettera di San Paolo ai corinzi della drammaturga e attrice spagnola Angelica Liddell è scandalosa come l’urlo di Giobbe verso un Dio assente, la bestemmia di Leopardi al cielo muto, o la disperazione di un Capaneo nell’inferno dantesco.
Non c’è blasfemia nella domanda, non c’è pruderie o morbosità nei corpi che Liddell libera sul palco palladiano sotto le note della Cantata di Bach 4. Mariangela Gualtieri con i cori delle sue bestemmiatrici già aveva toccato il tema della Maddalena che sta tra peccato e santità in un equilibrio di passione e amore d’infinita creaturalità. L’amore, il sacro e la violenza sono in un cortocircuito di desiderio, fede, bellezza. L’uno carne dell’altro, immagine dell’altro, voce e parola.
L’apparato ideologico e bibliografico che ha sfogliato la drammaturga di Figueras (ma vive monasticamente a Madrid) è profondo e vasto, basti il programma di sala e le numerose interviste rilasciate per avere un assaggio degli autori toccati, da Nietzsche a Pasolini, passando ovviamente dalla Bibbia. Al tripudio di citazioni (anche pittoriche se pensiamo alla Venere di Urbino di Tiziano) aggiungiamo quello che lo spettacolo ci ha suggerito.
Innanzi tutto tre erano le lettere, quella del titolo l’ultima, prima La lettera di Marta e Tomas dal film Luci d’invero di Bergman e come secondo blocco La lettera della Regina del Calvario al Grande Amante scritta da Liddell medesima. Ma come negli altri lavori non è l’ordine a dettare la scansione di una drammaturgia corporale, fisica e carnale. Il suo linguaggio materico respira, pulsa dentro un testo di crescendi e palpitanti e fremiti gutturali, disperati. Soprattutto nella parte centrale quando la voce è oggetto del sacrificio, piegata alla danza del corpo e forzata dentro una gestualità forsennata come una tarantola, un rito bacchico, dionisiaco. Declamazione salmodiata da un abito rosso che sembra proseguire il drappeggio che copre l’intero palco. Lì sopra prima era arrivato un uomo nudo ricoperto di oro. Lo stesso poi donerà in una sacca il suo sangue colato su una “veronica” bianca.
Non sono queste citazioni a Franko B o a Herman Nitsch ad impressionarci, né i nudi che dall’ultimo Festival di Avignone (come notava argutamente Franco Cordelli dalle pagine de “La Lettura”) stanno ormai inesorabilmente popolando i palcoscenici. Già c’è stata Sarah Kane e prima Emily Dickinson a dirci che tutto è santo, tutto è mitico nel dolore. E prima ancora c’era stata nel ’22 la Sancta Susanna di August Stramm. Stesso amore che è guerra e non pace, stesso amore che è caos, attrazione primordiale, profano perché sacro. L’amore è pre-razionale, è ribellione (per questo l’immagine che apre e chiude lo spettacolo dedicata a Charles Manson) e ogni discorso dell’amante, come ben è detto nei Frammenti di un discorso amoroso, è un discorso di solitudine.
Angelica Liddell sta lì, sola sul palco nella sincerità del vero dolore, tra metafora e letterarietà: letterali le donne nude e calve che portano in dono crani di cervi, metaforica la colomba e quegli abbracci ai legni della croce crollati sul palco come Das Ende des 20 di Joseph Beuys. “Il Sacro è un modo di restituire all’essere umano la coscienza dello spirito, strapparlo al totalitarismo materialista” aveva detto in una intervista. Ciò che definisce il teatro è il Mistero, quel momento di epifania davanti all’inspiegabile. Per questo abbondano le simbologie del dolore, della ferita, del pericolo. Ma ciò che più ci preme è quella sua orchestrazione dei corpi: le basta un tocco sulle spalle degli attori e la messa in scena prosegue dentro la finzione del teatro.
Quando l’hanno premiata alla Biennale nel 2013 con il Leone d’argento la giuria ha tirato in ballo Artaud. Anche per lui, amare è uccidere, anche se stessi, di domande senza risposte.
Simone Azzoni