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Loving Vincent

Loving Vincent, il film di Dorota Kobiela è nelle sale italiane. Ed è una meraviglia.

Coi tempi che corrono, guardi trenta secondi di Loving Vincent e pensi subito: È fatto al computer. E invece no: è vera vernice a olio. Ed è una vera meraviglia. Per realizzarlo ci sono voluti 125 pittori e due anni di lavoro. La tecnica impiegata è simile a quella che usa William Kentridge nei suoi video animati a carboncino, fatti cancellando e ridisegnando in continuazione sullo stesso foglio, anche se qui le cose sono un po’ più complicate. Si fa così: si gira una scena con gli attori in carne e ossa; si consegna il filmato al pittore, che copia sulla tela il primo fotogramma; si scatta una foto ad alta risoluzione del dipinto finito; quindi il pittore ritorna sulla tela e la “corregge” fino a trasformarla nel secondo fotogramma e si scatta un’altra foto. Avanti così 165.000 volte et voilà, ecco il primo “lungometraggio a olio” della storia.

Scappa un sorriso a questo punto a ripensare al Van Gogh di Kirk Douglas (Brama di vivere, 1956) e pure al famoso saggio di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), che qui prende un significato tutto nuovo. Van Gogh è forse l’artista più riprodotto di sempre: non solo su libri e manuali, come al tempo di Benjamin, ma oggi anche su piatti, bicchieri, lenzuola, berretti, magliette, magneti da frigorifero e chi più ne ha, più ne metta. Per non parlare di quelle operazioni pseudo-culturali come la “mostra” itinerante Van Gogh Alive, che allo spropositato costo di 14 euro ti fa camminare tra scadenti gigantografie e banali proiezioni animate – ma i biglietti venduti sono decine di migliaia. Ecco, con Loving Vincent la riproducibilità tecnica diventa una rielaborazione manuale, dalla quale non emerge una copia, bensì una nuova opera pittorica e filmica a un tempo, unica, originale, che dà vita – e qui si può ben dirlo – ai dipinti di Van Gogh .

La mente dietro quest’impresa folle è Dorota Kobiela, regista con studi da pittrice, che nel 2011 aveva già diretto un cortometraggio, Little Postman, anche quello interamente dipinto (da lei), con protagonista un piccolo portalettere di Varsavia durante la seconda guerra mondiale. Curiosamente, anche in Loving Vincent il protagonista è un giovane postino improvvisato, Armand Roulin, figlio di Joseph, il barbuto portalettere di Arles che Van Gogh ritrasse assieme alla famiglia in una serie di dipinti. È l’estate del 1981, Vincent si è suicidato da un anno e Armand viene incaricato dal padre di portare una lettera a Théo, fratello di Van Gogh. Così si lascia alle spalle le notti stellate di Arles e va a Parigi, ma qui scopre che Théo è morto e finisce da Père Tanguy, il commerciante di colori, che gli racconta la difficile vita di Vincent. Incuriosito, Armand si reca ad Auvers-sur-Oise, dove il pittore è morto, per incontrare il dottor Paul Gachet.

Un fotogramma del film
Un fotogramma del film

Come suggerisce il titolo stesso, Loving Vincent non è un film su Van Gogh: è un film su Vincent (l’uomo) visto attraverso Van Gogh (il pittore). A parlarci dell’uomo sono le persone che ha conosciuto e ritratto nella sua breve vita, mentre il pittore è sempre presente grazie alle animazioni dipinte, basate su un centinaio di tele, qua e là ritoccate per esigenze narrative – e inframezzate da flashback in bianco e nero, le uniche scene inventate del film, che ci mostrano spezzoni di vita del pittore.

Sul sito del film si possono acquistare, per qualche migliaio di euro ciascuno, dei dipinti di prova prodotti per il film, mentre fino al prossimo 28 gennaio, al Noordbrabants Museum di ’s-Hertogenbosch, in Olanda, saranno in mostra 119 dipinti usati nel film.

Stefano Ferrari

Loving Vincent
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