Da sempre l’uomo si è scervellato per esorcizzare la morte e per trovare un antidoto alla sua angosciosa minacciosità, i tentativi sono stati innumerevoli e di ogni genere. Nonostante questi sforzi è rimasta una forma di paura nei confronti di essa o, dato che la paura richiama troppo l’attenzione sull’oggetto, è più corretto definirla un’angoscia, una preparazione di stati d’animo nell’attesa di qualcosa che sfugge. In effetti tutto ciò rimane un mistero, in quanto si muore davanti all’altro e mai davanti a se stessi e ciò comporta la possibilità, resa possibile dal linguaggio, di sapere la morte ma l’impossibilità di viverla, proprio perché il suo avvento mette fine alla vita.
Con Loong Boonmee raleuk chat (uscito in Italia con il titolo Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti), film vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2010, il regista tailandese Apichatpong Weerasethakul sfida la distanza tra vita e morte, la stessa che impedisce di esperire quest’ultima. La sfida cinematografica consiste nella simulazione del continuo incontro tra i due opposti, nella loro simultanea presenza. Ombre e fantasmi riacquistano corporeità, si accomodano tra gli organismi palpitanti, fungendo quasi da consolazione ed introduzione al trapasso. Luce ed oscurità conversano all’interno delle inquadrature, rafforzando visivamente lo svolgimento dell’opera come spazio e tempo d’intersezione, punti di vista collocati nel buio, in uno spazio chiuso, che si aprono verso la luce, e viceversa.
Nel villaggio di Nabua, nel nordest della Tailandia, lo zio Boonmee trascorre i suoi ultimi giorni convivendo con un’insufficienza renale cronica che ne causerà presto lo spegnimento. La malattia lo costringe a realizzare silenziosamente l’avvicinarsi della fine, è un sentimento intimo ed esclusivo perché, benché le persone che lo circondano possano avvicinarsi, quest’esperienza non potrà mai essere del tutto condivisa. Gli sviluppi del male su Boonmee rimandano a Solaris di Tarkovskij: come quel pianeta, anche la consapevolezza della resa sembra essere un motore che vivifica e materializza gli affetti ed i ricordi primari, ma a differenza del film sovietico non si delineano connotati di morbosità ed ossessione. Questo potenziamento ha l’effetto di resuscitare due persone fortemente presenti in Boonmee, la moglie deceduta ed il figlio, fuggito da tempo. Delicatamente viene rappresentato il rafforzamento di una sfera marginale della società performativa e l’intensità del momento è tale da permettere anche alle persone sane, emotivamente coinvolte ma estranee all’evento in sé, di percepire i soggetti riesumati, come se il raccoglimento interiore dell’uomo riuscisse, mediante i suoi sentimenti più cari, ad irradiare i sensi di chi gli sta vicino. La riunione di Boonmee con la moglie ed il figlio raffigura una circostanza di dialogo tra la vita e la morte intesa sia in senso biologico (moglie) che come scomparsa (figlio).
Boonsong, il figlio di Boonmee, amplia l’orizzonte di Loong Boonmee raleuk chat: il ragazzo riappare al padre confessando di aver abbandonato la civiltà attratto da una scimmia, con la quale si è accoppiato, finendo per assumere delle sembianze poco umane a causa della pelliccia animale cresciutagli ovunque.
Un principessa innamorata del suo servo, un bisonte tornato allo stato brado ed alcuni filmati e fotografie di soldati confondono lo spettatore, interrompendo la narrazione coerente degli ultimi giorni del protagonista: un po’ per intuizione ed un po’ rapportando queste immagini al titolo del film, si capisce che esse riguardano i corpi abitati in passato dall’anima di Boonmee, sono le sue vite precedenti sintetizzate in brevi episodi. Ecco allora che la morte viene concepita come una fase della vita nel suo complesso, vita dall’andamento ciclico che assorbe la fine del singolo rielaborandola in nuove nascite. Emblematica è la grotta, uterina e dalle materne forme rotonde, dove Boonmee si reca per attendere il momento finale; è la Terra dalla fisionomia materna, luogo di natività e di ritorno allo spazio prenatale.
Il personaggio di Boonsong e la scena, allo stesso tempo realistica e poetica, dell’amplesso tra la principessa ed un pescegatto parlante propongono un altro aspetto tematico del film: la sbavatura della linea di demarcazione tra l’umano e le altre forme di vita. La sequenza del viaggio in automobile per dirigersi alla casa di campagna tratteggia l’idea del ritorno dell’umano nel ventre della Natura: la macchina da presa è accortamente fissata sulla vettura evitando di inquadrarla, creando così uno scenario illusorio nel quale il paesaggio si muove verso il punto di vista, scorrendone ai lati, divorandolo ed inglobandolo. Le fotografie di soldati e i filmati trasmessi da un televisore introducono anche il fenomeno della guerra, che, insieme alla malattia, è la realtà nella quale gli uomini, in termini di centimetri e di secondi, si trovano a minor distanza dalla morte.
Con la sua ultima pellicola Apichatpong Weerasethakul si rapporta poliedricamente alla venuta del trapasso: da un lato l’evento esalta il vissuto personale dell’Io, con la risalita degli affetti più importanti del singolo e con l’attaccamento della persona alla propria conservazione; dall’altro l’esistenza dell’individuo viene superata in direzione di una riconciliazione, quasi panteistica, con la vita e la Natura intese in senso ciclico. Quest’ultima concezione può essere avvalorata dalle reminiscenze del protagonista relative alle proprie vite passate.
Se il sapere della morte è il sapere più vuoto che ci sia, in quanto il soggetto conoscente non può mai esperire ed essere l’oggetto ma al massimo può assistere, ascoltare e comunicarne il prima e il dopo, Loong Boonmee raleuk chat è un’opera che, partendo da certi valori della tradizione e giungendo ad alcune elaborazioni di visionarietà, azzarda un passo innocente verso il riempimento di questo sapere.
Giordano Bernacchini
D’ARS year 50/nr 204/winter 2010