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Locarno riflette sulla nostra crisi di coscienza

“(…)Diversi film mettono a confronto la natura e l’uomo, interrogandosi in particolare su ecologia e sviluppo sostenibile. E sono innumerevoli le opere che, direttamente o indirettamente, affrontano grandi temi politici e sociali. E ciò avviene spesso attraverso il denominatore comune più piccolo: la famiglia, o meglio, ciò che ne resta, i genitori assenti, i figli perduti, gli emarginati di una società alla deriva.( …)”.

Garth Jennings, Son of Rainbow, 2007
Garth Jennings, Son of Rainbow, 2007

Questa è l’affermazione del direttore Frédéric Maire che trovo particolarmente calzante per definire il filo rosso della 61° edizione del festival del film di Locarno. Quasi 800 film provenienti da tutto il mondo di nuove e vecchie guardie del cinema internazionale tracciano un mosaico variopinto e stridente dell’umanità. Un’umanità profondamente assente, inconsapevolmente disperata, sostanzialmente in conflitto con se stessa. Quest’anno Locarno decide di raccontare il grande vuoto, (non a caso la rassegna d’autore è dedicata al “cinema esistenzialista” di Nanni Moretti), prendendo in esame la totale mancanza di senso che accompagna l’esistenza dei più, buttati a caso l’uno accanto all’altro nel tentativo di costituire un tessuto sociale che però non attecchisce in un terreno troppo arido di sentimenti, di rispetto dell’altro, di coscienza globale; la quale rimbalza inerte da un angolo all’altro della terra. La verità che emerge è un quadro di conflitto delle diversità che lottano imprigionate in scatole cinesi, dallo scontro faccia a faccia, a quello tra i massimi sistemi politici, religiosi, economici, dove l’accettazione dell’altro diventa un processo sofferto e raro che si compie quasi esclusivamente attraverso la catarsi di singoli giovani protagonisti. Sono loro, i ragazzini, gli adolescenti, a farsi carico interiore delle grandi piaghe sociali, dalla violenza famigliare, la povertà, la solitudine, lo sfruttamento, la microcriminalità, l’abbandono, allo smarrimento e la mancanza di integrazione degli immigrati. Sono loro a pagare le conseguenze di una globalizzazione perversa, perché tale solo nella condivisione del negativo, oppure a  sovvertirne gli schemi trovando una propria via, dando spazio al cuore non ancora perdutamente indurito come quello degli adulti.

Penso al film-documentario italiano Sognavo le nuvole colorate di Mario Balsamo che segue la vicenda reale di Edison, un ragazzino albanese che ha compiuto la traversata della speranza giungendo in gommone in  Italia nel 1999 all’età di 9 anni, spinto dai genitori bisognosi rimasti in patria. Oggi Edison ha 17 anni e vive a Lecce in un centro di accoglienza che lo potrà ospitare solo fino alla maggiore età. Dopodichè, senza un lavoro regolare, il suo destino sarà quello di essere rimpatriato, oppure quello di vivere un’esistenza clandestina in un paese in cui la legislazione a riguardo si fa di giorno in giorno sempre più penalizzante e punitiva. Il film narra in particolare l’episodio in cui Edison torna in Albania per rivedere la madre, viaggio che ha potuto compiere grazie alla forte amicizia stretta con Alessandro un giovane regista teatrale leccese che lo ha preso sotto la propria ala, facendo fruttare il potenziale creativo del ragazzino. Il teatro diventa la via attraverso la quale Edison è in grado di trasformare i propri mostri interiori, gli incubi di bambino abbandonato in un paese ostile diventano sintesi teatrali toccanti ed esperienze personali esorcizzanti, nell’attesa di conoscere il proprio futuro incerto. Edison ed Alessandro rappresentano due società, due mondi antitetici e nello stesso tempo identici, poiché pur provenendo da nazioni diverse, con religioni e usanze differenti, sono fondamentalmente due giovani che coltivano gli stessi ideali di uguaglianza e sostegno; eppure per accettarsi fino in fondo dovranno viaggiare dentro le proprie origini, conoscere la propria diversità, superare la paura dell’altro per scoprirsi, infine, uguali dentro. Penso allora al film Son of Rambow, che se pur di tutt’altro genere e ambientazione, è costruito sull’analogo processo di agnizione tra i due protagonisti. Si tratta della commedia corrosiva di  Garth Jenings che mette in scena la costruzione di un fantasioso remake di Rambo di due ragazzini inglesi: Will primogenito di una famiglia legata ad una setta religiosa anti-progresso che gli impedisce di ascoltare musica e vedere la televisione e Lee Carter, bullo della scuola e figlio di papà, lasciato in custodia ad un fratello poco più che adolescente dai genitori divorziati e ultra benestanti, troppo impegnati a seguire i relativi fidanzati in giro per il mondo. Qui, attraverso il registro della commedia brillante, il regista  mette a confronto due identità opposte per estrazione sociale e formazione, dove le figure genitoriali risultano opprimenti, oppure, al contrario totalmente distanti e dove l’amicizia tra i due sarà la chiave di volta per salvare i due bambini dalla totale apatia emotiva.

Claudia Llosa, Madeinusa, 2006
Claudia Llosa, Madeinusa, 2006

Poi c’è il rovescio della medaglia. Il film Gasolina di Julio Hernàndez Cordòn segue il triste epilogo di  giovani zombi della classe media guatemalteca che trascorrono la giornata rubando benzina da sniffare e che dopo aver compiuto  un omicidio, perderanno uno dei tre amici in una banale crisi di asma.

Khamsa di Karim Dridi invece, sviscera lo scottante problema dei campi nomadi in Francia, dove anche i bambini fanno parte di un meccanismo avvitato su proprie dinamiche interne, incompatibili con le realtà dei paesi in cui sono insediati se non attraverso il canale della microcriminalità.

Infine citerei Madeinusa, film peruviano di Claudia Llosa nel quale un ritratto umano bestiale e superstizioso, fondato sull’incesto e sulla violenza dei padri verso figlie e mogli, fa da sfondo alla storia della giovane campesina Madeinusa.

Insomma, Locarno quest’anno lancia l’allarme, punta l’obiettivo sull’emergenza di una crisi di coscienza globale che non risparmia niente e nessuno. Una crisi penetrante e brutale che taglia in senso trasversale la gola del mondo da nord a sud da est ad ovest, sprofondando sempre più in basso verso la decadenza, l’atarassia, la guerra della povertà d’animo senza redenzione.

Morena Ghilardi

D’ARS year 48/nr 195/autumn 2008

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