Sotto il titolo Tacà insèma – in dialetto milanese “attaccati assieme”, come i pezzetti di carta in un collage – la Costantini Art Gallery ha allestito una piccola ma interessantissima collettiva che mette a confronto cinque singolari interpretazioni di quella tecnica. O meglio, non solo della tecnica, ma prima di tutto del sostantivo “collage”, inteso ora letteralmente, ora in un’accezione astratta. Mi spiego.
Le nature morte del marocchino Khalid El Bekay (1966), fatte di ritagli di carta colorata, sono certamente dei collage in senso stretto[1]. All’opposto le prospettive multiple di Maurizio Galimberti (1956), fatte di Polaroid incollate ordinatamente in righe e colonne, usano piuttosto il termine come sinonimo di “assemblaggio di più elementi”. Ancor più lontane si situano poi le sculturine di Gianni Cuomo (1962), che dal collage prende solo l’uso della colla e della carta – ora stampata con un enigmatico codice alfanumerico alla Matrix – che avvolge come una pelle attorno al corpo di malinconici omini intubati.
Ora, tra questi estremi stanno le opere di Silvia Beltrami (1974) e Nicolò Quirico (1966), le vere sorprese della mostra, che muovendo da due varianti classiche del collage – il fotomontaggio e il papier collé – hanno saputo trarne soluzioni inedite e fantasiose. Silvia Beltrami ritaglia le figure che le servono dalle riviste di moda e le ricombina poi in una nuova immagine che pare un’esplosione di quella originale, coi personaggi proiettati verso i margini della composizione oppure vorticanti nel vuoto come presi da un tornado – in questo caso con un effetto finale che ricorda gli empirei affollati di nubi e santi delle volte barocche, qui però sempre profani e con la donna come protagonista assoluta.
Nicolò Quirico, di professione grafico e fotografo, muove invece dal papier collé – in cui l’elemento cartaceo inserito nell’opera rappresenta se stesso, come i ritagli di giornale usati dai cubisti e dai futuristi – e s’inventa una “stampa fotografica su collage di pagine di libri d’epoca”. Il procedimento è ingegnoso e complesso. Comincia sulla strada con la fotografia di un’architettura o una veduta che lo colpisce: ora il museo Pompidou e l’Hermitage, ora il molo affollato di container di Copenaghen. Caricata poi la foto sul computer, la proietta su una grande tavola e, tenendola come traccia, riveste la superficie del supporto con pagine prese da vecchi libri (romanzi, testi scientifici e d’informazione, sempre legati alla storia del sito fotografato). Usa i fogli col testo come sfondo per le architetture; quelli bianchi per gli altri elementi del paesaggio.
Infine stampa la fotografia direttamente sopra il collage di pagine con particolari pigmenti che non coprono le parole, sempre leggibili in trasparenza sotto gli edifici come le ossa in una radiografia, a svelare meraviglie e tumori dell’umana società[2].
Stefano Ferrari
Tacà insèma
7 novembre – 8 dicembre 2013
Costantini Art Gallery, Milano
[1] Sebbene in II Pausa amarilla (2004) troviamo già una doppia lettura del termine, con l’immagine divisa su cinque pannelli.
[2] Ogni lavoro è realizzato in tre copie che però, ovviamente, sono pure tre pezzi unici. La foto stampata sarà infatti la medesima, ma il collage di fogli sottostante cambierà da pezzo a pezzo