L’arte ha sempre spostato i confini del proprio operare destinandoli ad un altrove che richiede le sue letture non sempre nel tempo del vissuto quanto in quello a venire. Come se l’oggetto esposto all’attenzione del pubblico, seppur ridotto ad un unico utente, attendesse un futuro prossimo pronto ad accoglierlo nella sua evidente capacità previsionale. L’arte sposta così il terreno del suo operare come chi munito di uno strumento affilato traccia solchi e apre trincee. Ma almeno tre condizioni si impongono alla stessa delimitandone l’operatività, la prima risiede nel limite delle materie. Sono esse che ponendosi come ostacolo da sormontare definiscono l’ambito entro cui si muove l’opera, caratterizzata da naturali spostamenti di senso in cui le materie intervengono imponendo il proprio statuto, la propria resistenza e il proprio dominio. Così avviene per la scultura, la pittura o l’architettura costrette ad un primo confronto con essa. La materia s’impone, stabilisce il destino dell’esito finale già circoscritto entro la sua portata, entro la sua modellazione o malleabilità. Michelangelo, sovvertendo la naturale predisposizione classicista, aveva perfettamente intuito il potenziale implicito nella massa marmorea che doveva essere semplicemente liberata dal superfluo. La pittura sia verista che astratta si serve del peso delle materie sia per produrre le opere di Kandinsckij che di Picasso, quelle di Rubens o di Goya.
Se ora, come leggiamo, si ritrovano scaglie di frammenti di lucciole per le pitture di Caravaggio atte a determinare un certo luminismo è proprio per l’attenzione alla materia. Ruggero Pierantoni è più lapidario in tal senso: “…senza la materia vuota e dura, nessuna immagine. Senza carta e pigmenti, senza tela e senza legno, senza fosfori che emettono fotoni nessuna immagine, senza l’ematite che scorre sul foglio, o il gesso sulla lavagna, senza scalpello e granito nessuna forma.
Senza bromuro di argento e collodio, senza carta nulla da vedere, senza oro e lapislazzuli e pergamena nessun drago o santo Evangelista o Madonna in pianto. Grammatica o no, proposizionisti o no, sintassi presente o assente, sapere sopito o sapere destato, vale sempre la regola: senza materia nessuna immagine”. Aggiungiamo, persino nell’aleatorietà del virtuale v’è la necessità quantomeno di un supporto, di un contenitore o di una lastra al silicio.
Esiste poi un limite concettuale dovuto alle resistenze delle teorie che impongono o costringono i loro programmi, programmi a cui l’artista si associa evidenziandone le discrepanze, le alternative tematiche, le divergenze con quanto già detto. Alcune volte i programmi coincidono con vere e proprie ideologie d’intervento, che tentano di intervenire sulla libertà dell’opera, ben diversa dalla libertà dell’artista.
Roger Caillois parla di questo nel suo vocabolario estetico dove a giusta ragione avverte che l’eccesso di libertà non produce grandi opere, e sempre l’artista si costringe in un programma che se non proprio suggerito è obbligato dalle circostanze o dagli obiettivi. “Nella vita quotidiana -egli scrive- ci sono poche cose a cui sia necessario tenere quanto alla libertà. Ma nelle lettere (ma vale per tutte le arti) dove tutto è libero fin dal principio, dove cioè non intervengono le regole della convivenza civile, e non v’è costrizione obbligante, fare ciò che piace è solo pigrizia, mancanza d’audacia e di ambizione. Non è che un imitare la natura. Ma l’arte esige di più”.
Un limite in tal senso suona come un avvertenza, come un blocco nero direbbe la Duras da cui partire per la composizione dell’opera: “Quando si scrive (ma anche questo vale per tutte le altre forme artistiche) entra in gioco una specie d’istinto. Lo scritto c’è già nella notte. Scrivere sarebbe all’esterno di sé in una confusione dei tempi: fra scrivere e avere scritto, fra avere scritto e dover scrivere ancora, fra sapere e ignorare di che cosa si tratta, partire dal senso pieno, esserne sommersi e arrivare fino al non senso. L’immagine del blocco nero in mezzo all’universo non è poi troppo azzardata”. Calvino ci dice che prima di spalmare la marmellata è necessaria la fetta di pane, come dire che senza un programma che strutturi in parte l’opera, essa non si definisce nella sua portata ideologica, nella sua potenza espressiva se prima non se ne conosce appunto un vocabolario, un alfabeto che ne indirizzi le voci, una grammatologia che ne strutturi il percorso, il nostro Tommaso Campanella aveva intuito che persino chi possiede le materie non è detto che produca arte: “Chi pennelli ave, ed a caso pinge, imbrattando le mura e le carte, pittor non è, ma chi possede l’arte, benché non abbia inchiostri penne e vaso”.
Il terzo è il limite delle tecnologie che sembrano presagire scenari, in parte anticipati su queste stesse pagine di D’Ars, che spostano l’attenzione dall’opera agli strumenti atti a realizzarla. Per l’Uomo Nuovo che va prospettandosi, (Post-Umano, Ultra-Umano, Ibrido, Protesico, Transgenico…) in scenari inaspettati precedentemente, queste si rendono necessarie e fuorvianti allo stesso tempo. Il Virtualismo, il Clonismo, le nano tecnologie, la bioingegneria, la GeneticArt, si sono già introdotte nell’operare. Sarà utile presagire i loro scenari convinti che sia sufficiente la loro novità, o dovrebbe sussistere la loro traduzione ad un livello più alto di cultura e di informazione?
L’arte come l’architettura avvertita in un recente saggio da Gregotti rischia, senza toni pessimistici o allarmanti, di venire inghiottita nella banalità dell’informazione, utile sarebbe destinare la sua portata in un futuro in cui finalmente se ne riconosca la sua indipendenza dalla mistica informativa.
Il limite nel passato era rappresentato dalle Colonne d’Ercole che si ergevano sulle coste dello Stretto di Gibilterra, oltre il quale: l’ignoto e l’incognita. Oggi che tutto sembra darsi senza riserve il limite risiede nel nostro stesso operare simile per alcuni aspetti alla fatica di Sisifo costretto a risollevare la sfera che rotola costantemente in basso, ma come lo stercoraro nel deserto, che rende produttiva la sua pallottola di letame, procurandosi una riserva esistenziale, l’oggetto del nostro fare, per meglio dire: l’opera, si forma dall’accumulo di tempo e di informazioni che sappiamo trarre, dalle materie che si riescono a raggrumare, fino a rendere in sostanza il limite illimitato.
Marcello Sèstito
D’ARS year 49/nr 197/spring 2009