Modi dello “stare fra” dalla teoria della performance alla contingenza del moderno
RICHARD SCHECHNER RACCONTAVA DI COME I MEMBRI dello Squat Theatre utilizzassero le vetrine dei negozi della Ventitreesima Strada di New York per realizzare i loro spettacoli. Si trattava di mettere a tema e di rendere visibile il dentro e il fuori, il vissuto e il rappresentato, “lo stare fra” l’essere osservati e l’osservare, l’attuale e il virtuale che caratterizza non solo la condizione liminale del teatro e dell’arte teatralizzata del Novecento ma la qualità riflessiva della performance stessa. Intendendo quest’ultima un luogo di osservazione del sociale e delle dinamiche evolutive del rapporto fra individuo e società.
Ed è infatti proprio lo statuto ibrido delle perfomance artistiche contemporanee a farci capire – sullo sfondo delle trasformazioni socio-comunicative – forme e funzioni della liminalità ossia di quella condizione “di soglia” che apre alla trasformazione, alla creatività, al flusso in opposizione alla ricerca un po’ troppo stringente di stabilità cui le narrazioni del moderno ci hanno abituati.
Non è un caso che il concetto di liminalità sia centrale nella Teoria della performance dell’antropologo Victor Turner per cogliere l’importanza dei processi rituali e delle loro trasformazioni. Per le società arcaiche il rituale è quel tipo di performance “efficace” e obbligatoria che serve per rinsaldare i vincoli dell’appartenenza comunitaria. Nei riti di passaggio (ad esempio dallo status di bambino a quello di adulto) studiati da Arnold Van Gennep, cui lo stesso Turner rimanda, la condizione della liminalità riguarda la fase in cui non si appartiene più alla struttura già acquisita ma non si fa ancora parte di quella da raggiungere e dove gli iniziandi, una volta superata la soglia, rientreranno nei ranghi fatalmente trasformati.
Naturalmente tale carattere di obbligatorietà non riguarda la società moderna che produce, piuttosto, dei fenomeni liminoidi ossia delle dinamiche performative che assomigliano alle pratiche liminali senza esserlo, che possono avere una ricaduta sul collettivo ma che hanno una base individuale e volontaria, che si sviluppano nella società industriale e postindustriale come occasioni del tempo libero, del loisir e dello svago. La funzione delle performance a carattere liminoide è perciò prevalentemente l’“intrattenimento”.
Tuttavia Turner non manca di evidenziare come nelle società complesse i due generi – liminale e liminoide – si trovino a coesistere in una sorta di pluralismo culturale che caratterizza lo scenario eterogeneo e vario della società-mondo, di quella società cioè che si definisce nei termini della comunicazione e della meta-territorialità dall’immaginario garantita dalla diffusione dei media. È in tale contesto che è possibile cogliere l’insieme di performance culturali che miscelano efficacia e intrattenimento ponendosi sul limen delle due funzioni fondamentali della performance. Non fosse altro per il fatto che ci troviamo in un campo di azione sociale e asociale allo stesso tempo, che si colloca cioè sulla soglia fra coscienza, vita soggettiva e comunicazione. Nei termini della performance ciò significa osservare l’emergenza di eventi comunicativi che si connotano come specchi riflessivi – che cioè costruiscono rappresentazioni, anche deformanti ovviamente, del mondo – e che contano sulla partecipazione di soggetti attivi nel produrre esperienze e significati. Su tale dialettica il lavoro delle Avanguardie artistiche è stato quello di porsi sul confine fra arte e vita, fra efficacia – con il recupero delle forme rituali – e divertimento – assumendo talora in chiave critica i prodotti dell’industria culturale e i media come materia del fare artistico. Se intrattenere significa proprio creare uno spazio simbolico sacro, cioè separato dal resto, uno spazio liminale o liminoide dove le performance possano avere luogo, il liminale si qualifica allora come la condizione che caratterizza dei territori espressivi indistinti e ibridi, dove non solo è possibile tenere insieme le ambivalenze – realtà e finzione, attuale e virtuale – ma produrre forme che attraversano i generi, che miscelano istanze del visivo con le arti del tempo e del comportamento; che abbandonano i campi stati ci e consolidati per dilagare nei media, cioè nei luoghi dell’esperienza contemporanea e del suo immaginario. La performance ibrida contemporanea come campo di contingenza, ossia della compresenza di possibilità non necessarie, sembra essere un contesto ideale per rendere visibile e praticabile lo stato di liminalità, metafora e condizione per l’esistenza di ognuno. Passaggi e zone liminali sono rintracciabili in tutta la sperimentazione della performance artistica contemporanea sia per forme sia per contenuti. Solo tre esempi.
Nel ciclo Cremaster di Matthew Barney che già dal titolo segna il principio delle possibilità – virtuali – da attualizzare verso una direzione o un’altra per dire poi che la bellezza sta nelle forme mutevoli, ibride, aperte e si esprime nella combinazione di forme – dalla mitologia greca e dall’opera barocca, dal rodeo western al musical hollywoodiano – e dall’intreccio dei linguaggi con cui il cinema sconfina nell’installazione plastica e nella tridimensionalità già percorsa, a sua volta, da tutta la cosiddetta arte virtuale.
Nel progetto X (ics) racconti crudeli della giovinezza di Motus, dove gli scenari urbani e le periferie fanno da contesto per la messa a tema della condizione giovanile, tempo del passaggio e dello “stare fra” per condizione esistenziale, che può essere trattato attraverso il teatro, la videoinstallazione, il fumetto, il mediometraggio, la performance per pixel…
Nella logica estrema di trasferimento della performance dal vivo sul supporto mediale che riguarda l’esperienza artistica in SecondLife, realizzazione della liminalità (liminoide) stessa in virtù del carattere di confine che qualifica l’abitare stesso del Metaverso come condizione allo stesso tempo performativa e spettatoriale del soggetto/avatar, sempre doppio e fatalmente sulla soglia. Come nella vita.
Laura Gemini