Michelangelo Frammartino ripete che Le quattro volte non è il risultato di una sua ossessione: i soggetti filmati si sono svelati naturalmente davanti all’obiettivo e non sono stati materia da modellare secondo un’idea prestabilita. Il documentario, presentato in occasione del Festival di Cannes 2010 nella selezione Quinzaine des Réalisateurs e vincitore del Premio Europa Cinema Label, nasce dalla paziente osservazione di alcuni territori calabresi, dei paesi Serra San Bruno, Caulonia e Alessandria del Carretto; è il frutto donato da queste terre, un loro ringraziamento alla troupe per l’attenzione e il tempo speso a scoprirle. Se la natura del cinema è da sempre quella di un mezzo che sistema immagini mobili e, in quanto queste mutano non appena vengono colte, pensabili con ritardo necessario, i modi del linguaggio contemporaneo investono gli spettatori con scatti frenetici che annebbiano il pensiero, calcando determinate peculiarità tecniche, quasi portando ad un’inafferrabilità anche sul piano dei contenuti, diventando così una forma di distrazione che mira ad assicurare unicamente una certa dose di partecipazione emotiva, garanzia contro l’abbassamento del livello d’interesse.
Se da un lato c’è la natura del cinema e dall’altro vige la sedimentata tendenza odierna, Le quattro volte si allontana dai codici attuali e, pur non potendo eludere le caratteristiche intrinseche del mezzo, tenta di rallentare, di favorire la contemplazione, rinunciando coraggiosamente a colpi di scena, trame appassionanti ed altri espedienti.
Ogni inquadratura mi ha dato la sensazione di essere la seconda di una coppia, di cui la prima era stata scartata in fase di montaggio: come se durante le riprese ci fosse stato prima uno sguardo veloce e superficiale, e poi, dopo aver chiuso gli occhi, un secondo sguardo diretto a focalizzare meglio lo stesso soggetto, lasciando che quest’ultimo imprimesse più accuratamente la propria immagine sulla pellicola e che ogni fotogramma si dilatasse nel tempo e si distendesse completamente, traboccando fuori da quei ritmi televisivi che imbrigliano in a priori nevrotici qualsiasi percezione. Inquadrature che testimoniano una riflessione, anche del regista, aperta sia sulla porzione di mondo racchiusa che sugli spettatori, resi partecipi da questo sguardo insolito.
Il materiale archiviato durante il periodo di riprese si è fatto montare sviluppando una narrazione cadenzata in quattro parti, ognuna avente un protagonista. La storia, che nel complesso dell’opera riveste un ruolo secondario, inizia con la descrizione della metodica vita di un anziano capraio, prosegue con la nascita di un capretta e col suo smarrimento ai piedi di un grande abete bianco, vede quindi l’abbattimento di quest’ultimo e la sua sistemazione in paese per celebrare una festa tradizionale e, infine, tramonta documentando i pezzi d’abete bruciati in modo da ottenere carbone di legna, poi distribuito anche all’abitazione del pastore. La trama unisce in un unico discorso l’uomo, l’animale, il vegetale e, per rimando simbolico, il minerale: il pastore, la capretta, l’abete bianco ed il carbone (di legna). Questo è l’aggancio del film con la frase di Pitagora secondo la quale l’uomo ha una percentuale minerale nelle ossa, una parte vegetale dovuta alla funzione nutritiva, una componente animale connessa alle capacità motorie ed un aspetto razionale in quanto portatore di ragione. Frammartino applica questa quadripartizione dell’uomo al mondo che filma, al paesaggio calabrese; ma allo stesso tempo gioca a rendere meno rigide le staccionate che delimitano questi generi. O meglio, l’oggetto delle riprese, lasciandosi filmare, si denuda, lamentando la limitatezza della quadripartizione. Già a livello narrativo queste barriere vengono fatte tremare dalla figura del pastore, storicamente collocato sul confine tra l’uomo e l’animale; e non è un caso che la sua casa sia all’ingresso del paese, metà dentro e metà fuori. Alcune immagini proseguono il terremoto concettuale: gli abitanti locali si allontanano in processione dal paese e le capre escono dal loro recinto per avviarsi, sempre in forma di processione, all’interno del villaggio. La visiva messa in discussione dei regni può essere colta anche in una delle scene finali, nella quale viene mostrata una carbonaia che, ardendo legna per trasformarla in carbone, sbuffa fumo e si anima, somigliando ad un gigantesco naso di cane o ad un enorme testuggine trasudante. Anche l’innalzamento del grande abete bianco in occasione della festa folcloristica contribuisce alla scossa: raramente una pianta viene assoggettata di tali attenzioni, direi, antropocentriche.
La colonna sonora del film presenta esclusivamente i rumori dei luoghi e le poche voci umane arrivano da lontano, incomprensibili, in dialetto, recepibili come versi animali. I suoni vanno a formare una mappa dell’udibile che si sovrappone, coprendole, alle quattro etichette. Le diverse fonti diventano semplici strumenti musicali di un solo musicista, la Terra; e la loro continuità è ascoltabile udendo la vicinanza timbrica del respiro rantolante del pastore con quella delle sue capre, del tintinnio di un cucchiaino mosso in una tazzina con quella dei campanacci legati al collo degli animali.
Da un lato la linea cronologica ed il titolo suggeriscono al viaggio del pastore che vive, e s’incarna, quattro volte: questa è la storia, ciò che si può raccontare. Dall’altro le analogie visive e sonore aumentando il volume del raccontabile che, mutando in pura visione, consente solamente di essere contemplato, alimentando la concezione di un unico mondo della vita, le cui pieghe vengono catalogate dall’uomo in quattro nomi. Forse, i soggetti dei quattro capitoli svolgono il compito di introdurci nella pellicola, di apprezzare il corpo della Terra che, finalmente, si lascia ammirare dispiegandosi nella sua totalità. Forse ciò che distinguevamo erano i nodi del terreno che, lasciandosi tirare come una tovaglia, scompaiono mettendo in mostra il suolo comune. Così la Terra si spiega.
Giordano Bernacchini
D’ARS year 50/nr 203/autumn 2010