La vita è un tema affascinante con cui inaugurare questa parte della rivista, e costituirà, nelle sue numerose prospettive e declinazioni, un po’ il filo conduttore di quest’anno. L’argomento di questo primo numero della sezione è la vita nell’accezione di “ciò che vive”. Il “vivente” è oggi un tema nevralgico su cui convergono, e spesso confliggono, vari punti di vista: filosofico, scientifico, artistico, etico, morale, tecnologico, politico, ambientalista, religioso… È possibile definire la vita? Come la si riconosce? Perché cerchiamo di riprodurla nelle macchine, nei dispositivi? Perché, e come, viene presentata o rappresentata? Qual è il ruolo che gli artisti svolgono nel complesso campo tecnoscientifico che la circonda?
La storia della rappresentazione è stata molto spesso la storia della rappresentazione della vita. Rappresentare il vivente – umani, animali, piante – è un topos della storia della figurazione, e per millenni, dalle pitture rupestri di Lascaux ai mondi di Second Life, artisti e produttori di immagini hanno cercato di rappresentare ciò che vive per le ragioni più diverse: conoscerlo, trasmetterlo, sfidarlo, memorizzarlo, esorcizzarlo, evocarlo, propiziarlo, celebrarlo, comunicarlo, rimpiangerlo, rievocarlo, condividerlo, problematizzarlo, espanderlo… Ma anche gli artefatti e gli strumenti che l’umanità ha costruito hanno trovato ispirazione nel vivente cercando di riprodurlo, di emularlo. Per i progetti delle sue macchine volanti Leonardo studiava l’anatomia e il volo degli uccelli; per McLuhan gli utensili, le macchine e i media sono estensioni del corpo e dei sensi; la medicina e la farmacologia si sono sempre servite del vivente per curare (fino a brevettarne, vergognosamente, i principi attivi); mentre i ricercatori che progettano le macchine del presente e del futuro copiano il vivente e il suo comportamento…
Il vivente quindi è stato ed è il modello della rappresentazione e dell’arte, ma è anche il modello di un numero crescente di artefatti, macchine e dispositivi sempre più complessi che devono adattarsi ai contesti, superare le difficoltà dell’ambiente in cui operano, interagire con le novità e gli imprevisti, sopravvivere a danni, errori o difetti, difendersi dalle aggressioni… Il vivente è il miglior modello di questi artefatti perché ha un’“esperienza” del mondo – cioè possiede un sapere, una conoscenza – maturata in oltre quattro miliardi di anni di evoluzione, perché da quando esiste ha dovuto misurarsi con il mondo fenomenico.
Oggi, a mano a mano che le scienze e le tecnologie la approfondiscono, la vita appare molteplice, articolata, e questa conoscenza restituisce anche la consapevolezza della sua multiformità, della sua diffusione e varietà, dell’importanza di tutte le forme viventi e della loro interdipendenza, del fatto che, al di là della competizione derivante da una comune pulsione all’esistenza, non ci sono forme viventi più importanti e altre che possono essere trascurate o, peggio, eliminate. E i confini della vita non sembrano più così chiari e definiti, basti pensare, ad esempio, alle discussioni (e alle polemiche) sui primi stadi di sviluppo dell’embrione.
In secondo luogo la varietà della vita è destinata in futuro ad espandersi, arricchendosi di nuove forme di tipo inorganico create dall’uomo o ibridandosi con esse, in una sorta di “evoluzione culturale”. Accanto alla vita storicamente e tradizionalmente intesa, basata sull’organico, a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso l’idea di vivente è stata ampliata da un insieme di varie discipline, tra cui la “vita artificiale” e la robotica (con le sue attuali filiazioni, come la biorobotica) sono forse le più rappresentative. La vita artificiale simula, per via informatica mediante algoritmi che girano nei computer, processi che si ritiene definiscano la vita, e il suo grande merito è stato di estendere l’idea di vita al di fuori dell’organico – la dimensione alla quale la conosciamo sulla Terra – rendendola più generale, universale, svincolandola dalla sua costituzione materiale, perché a definire il vivente non è più ciò di cui è fatto ma sono le istruzioni che lo governano. Organico e inorganico costituiscono dunque due diverse occorrenze del vivente, che, dialogando, interagendo o ibridandosi, oltre ad arricchire le conoscenze dell’umanità (e quindi anche gli strumenti dell’arte) configurano una molteplicità della vita che potrebbe persino essere interpretata come modalità evolutiva. A poco a poco, infatti, questi dispositivi e macchine potrebbero divenire autonomi, dotati di una sorta di vita propria, rendendo complementari organico e inorganico, ricapitolando l’evoluzione delle forme di vita pluricellulari, diversificando ulteriormente la vita e le forme del vivente.
Tuttavia, anche se la vita ha sempre occupato una posizione centrale nella cultura umana, noi non sappiamo bene che cos’è. Alla nostra dimensione siamo sicuri di distinguere ciò che vive (piante, animali) da ciò che non vive. Ma alla dimensione microscopica, per esempio, questa certezza sfuma, persino per gli scienziati. La vita è forse anche una funzione della scala a cui la si osserva? I virus sono degli enigmi perché si situano al confine tra la chimica inorganica e la vita, e per decenni gli scienziati hanno discusso se debbano essere considerati viventi. Che cosa fa di un agglomerato di composti chimici un organismo vivente? Vi sono varie definizioni, che dipendono dalle discipline da cui hanno avuto origine: la vita è un flusso continuo di materia, energia e informazione…, o è la capacità di raggiungere e mantenere un equilibrio costante con l’ambiente…, oppure consiste nel nascere, sostentarsi, crescere, autoguarirsi e riprodursi…, solo per citare qualche esempio, ma nessuna di queste sembra essere soddisfacente.
Il rapporto tra arte e vivente ha tratto nuova linfa da discipline come la biologia, la genetica e le scienze derivate, dalla disponibilità di tecnologie e strumenti come le biotecnologie, l’ingegneria genetica, dall’ibridazione della biologia con l’informatica e la robotica. Negli interventi di questa sezione Franco Torriani compie un percorso tra varie posizioni filosofiche e artistiche sul vivente nella nostra età “tardo-biologica”, sull’invasione tecnologica della natura e della vita e sulla questione della distinzione tra natura e tecnologia. Antonio Caronia discute dell’arte biotech e dei paradigmi che propone, inquadrandoli all’interno di un più generale superamento dei limiti delle tradizionali “scienze del vivente”. Cristina Trivellin affronta l’altro volto del vivente, legato alla vita artificiale, analizzando il lavoro di Christa Sommerer e Laurent Mignonneau, due artisti tra i più affermati in campo internazionale in questo ambito di ricerca. Martina Coletti considera la generalità del concetto di “virus” e la similarità delle sue occorrenze in campo biologico e informatico, nonché il suo uso nelle scienze sociali, nella comunicazione, in ambito creativo e artistico. Alberto Mattia Martini rivela infine le straordinarie possibilità che ha l’arte di creare interazione e comunicazione tra specie diverse, in particolare tra mondo vegetale e mondo umano.
Pier Luigi Capucci
D’ARS year 48/nr 193/spring 2008