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La terza vita

Per esemplificare l’idea di quella che chiamo “terza vita”, dopo i numeri dedicati alla “prima vita” (fondata sulla biologia) e alla “seconda vita” (all’interno dimensione simbolica, nel virtuale), nello scorso numero di D’Ars chiudevo il mio intervento immaginando che gli avatar, in Second Life o in qualsiasi altro mondo virtuale condiviso, potessero continuare a operare anche senza la nostra presenza. Non si tratta di qualcosa di irrealizzabile: basta stabilire delle modalità di interazione e di operatività, basate su applicazioni di intelligenza artificiale e su insiemi di regole fornite sia da noi che interne all’architettura degli ambienti virtuali, che in nostra assenza dovrebbero governare le attività degli avatar. E infatti, anche in campo artistico, esistono delle applicazioni.

Jeff Tabor, Randy Rettberg, Hello World, biologia sintetica, 2004
Jeff Tabor, Randy Rettberg, Hello World, biologia sintetica, 2004

Quello appena proposto, tuttavia, è un esempio semplice di “terza vita”. Ma cosa intendo con questa locuzione? Uso deliberatamente questo concetto nella forma più debole e generale possibile, cioè intendendo l’emergere di forme e applicazioni che, senza soluzione di continuità, vanno da semplici costrutti, artefatti e dispositivi autonomi, in grado di attivarsi e di operare indipendentemente, fino a entità complesse capaci di mostrare comportamenti analoghi a quelli degli organismi viventi. Appartengono al livello più semplice, per esempio, le applicazioni basate sull’intelligenza artificiale, capaci di portare a termine autonomamente dei compiti anche di natura complessa ma in genere abbastanza circoscritti, per i quali spesso sono state appositamente realizzate. Al livello superiore vi sono, per esempio, applicazioni basate sulla vita artificiale, che realizzano creature che possono vivere solo nei computer, che nascono, crescono, imparano, si riproducono e muoiono. Ma anche costrutti basati sulla robotica, sulle biotecnologie, sull’ingegneria genetica, sulla biologia sintetica, sulle nanobiotecnologie.

La robotica è una disciplina che sta esplodendo, basta guardare all’attenzione che, rispetto anche solo a un anno fa, quasi quotidianamente i media dedicano alle sue applicazioni. La robotica, in tutte le sue forme (antropomorfe e non), da quella industriale a quella personale e di massa, è considerata di importanza strategica all’interno dell’UE e varie iniziative, tra cui la European Robotics Platform (EUROP), ne sostengono la ricerca e lo sviluppo. Inoltre, dato che nel giro di qualche anno i robot diventeranno parte integrante della società umana, con tutte le problematiche sociali, etiche e persino giuridiche che tale diffusione comporterà, un progetto europeo transnazionale, il FEELIX GROWING (FEEL, Interact, eXpress: a Global approach to development With Interdisciplinary Grounding), cerca di stimolare la ricerca sulle capacità comunicative, interattive, espressive ed emotive dei robot. Cosa che del resto è già in corso in Giappone, forse la nazione più avanzata nell’impiego sociale della robotica, dove vengono realizzate applicazioni per l’assistenza agli anziani, la compagnia, l’intrattenimento, il monitoraggio dei pazienti e il sostegno terapeutico. Negli Stati Uniti numerosi laboratori portano avanti ricerche sull’impiego della robotica in molti campi, da quelli industriali a quelli sociali, fino alle applicazioni militari. Progetti di ricerca e sviluppo inerenti al settore della biorobotica stanno sperimentando ulteriori possibilità, collegando la robotica alla biologia anche per realizzare entità ibride che uniscono la dimensione dell’inorganico, tipica dei costrutti robotici, e quella dell’organico, tipica degli organismi viventi.

Secondo molti studiosi, all’interno di un dibattito interdisciplinare che si è ampliato e approfondito negli ultimi anni, queste entità inizialmente progettate e costruite per svolgere compiti gravosi, pericolosi, ripetitivi, di precisione, di intrattenimento, in maniera economica, oltre a un certo limite di complessità potrebbero sviluppare capacità “superiori”, come la volizione, il senso di sé o addirittura la coscienza. Avvicinandosi così a quanto Hans Moravec, uno dei massimi scienziati mondiali di robotica, fin dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso aveva preconizzato: un’evoluzione della robotica che porterebbe alla creazione di entità autonome dotate di capacità superiori a quelle umane, di una “terza vita” che rappresenterebbe il culmine della nostra evoluzione.

Se la robotica è probabilmente la disciplina più matura, il concetto di “terza vita” è tuttavia più generale e si estende nell’ambito dell’organico. Nonostante che le applicazioni siano più sperimentali e inizino solo ora a varcare le soglie dei laboratori, mostrano uno scenario che in prospettiva appare molto articolato. La biologia sintetica e la bioingegneria costruiscono macchine, fatte di parti intercambiabili di DNA, che vengono inserite e operano all’interno di cellule o organismi viventi, creando, mediante questi “biomattoni”, organismi modificati, cioè vita sintetica, in grado di compiere varie attività: produrre ingredienti per farmaci, amminoacidi artificiali, purificare acque inquinate, creare sistemi di rilevazione di sostanze particolari, “circuiti biologici” da integrare all’interno di dispositivi… Sostanzialmente la biologia sintetica si occupa della progettazione e costruzione di sistemi viventi che si comportano in modo prevedibile o finalizzabile, che utilizzano componenti intercambiabili e riescono a portare a termine compiti che nessun organismo naturale sarebbe in grado di fare. A differenza di altre discipline la biologia sintetica studia la vita costruendola anziché smontandola, e, creando organismi programmabili, rende labile, fino a confonderlo, il confine tra il vivente biologico e le macchine.

La “terza vita”, tuttavia, non è cosa nuova. Come emerge dal testo di Franco Torriani, la contemporaneità tecnoscientifica sta andando verso una pluralità di approcci, metodologie e applicazioni che sollevano problematiche di varia natura che vanno ben oltre la dimensione della scienza, della tecnologia e della ricerca. E l’arte, come sempre, è in prima fila con tutta la sua determinazione a fare, intepretare, ricercare, interrogarsi, come nota Laura Sansavini nel campo della robotica. Ma è in realtà tutta la storia della cultura umana ad essere costellata di tentativi di creare entità autonome e autosufficienti, come mette in luce Martina Coletti nel suo testo, di tentativi di “dare vita”, quasi come se – dai primi artefatti litici alle cellule sintetiche – fosse in fondo il suo percorso naturale, la sua vocazione, il suo destino.

Brian Knep, Healing Series, Installazione interattiva, 2003-2004
Brian Knep, Healing Series, Installazione interattiva, 2003-2004

Dunque, al di là delle questioni che inevitabilmente emergono, questa tendenza generale verso applicazioni, costrutti, entità, organismi sempre più complessi, autonomi e “intelligenti”, questa proliferazione di forme e creature nate dall’antropico che si confrontano con il vivente potrebbe anche essere letta come direzione evolutiva, come nuovo step evolutivo. Dopo dispositivi, artefatti e macchine come semplici estensioni del corpo, dei sensi e della mente si sta evolvendo una “terza vita” non più selezionata dalla pressione dell’ambiente “naturale” – dalla selezione naturale che ha generato tutte le forme organiche viventi, umanità compresa – ma dai processi culturali di una specie, la nostra specie: la “terza vita” è il prodotto della cultura umana, dell’ambiente antropico. Più quest’ultimo si espanderà, più le nuove forme prolifereranno e si evolveranno. Di questa genesi, completamente naturale, che supera e comprende la dimensione organica, almeno per adesso noi siano i padrini inconsapevoli, i portatori della fiaccola.

Pier Luigi Capucci

D’ARS year 48/nr 195/autumn 2008

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