La teoria del tutto (titolo originale The theory of everything) di James Marsh porta sul grande schermo la vita del celebre astrofisico inglese Stephen Hawking. Dagli studi universitari fino alla malattia degenerativa che l’ha costretto alla sedia a rotelle e a comunicare tramite un sintetizzatore vocale, il film insiste sulla relazione di Stephen con la moglie Jane, enfatizzando le note intime del loro rapporto. L’effetto è quello di un anestetico e la carica esplosiva di quello che rappresenta Stephen Hawking, non solo per la scienza, si esaurisce per la spinta dei toni sentimentalisti.
All’origine del progetto di regia ci sono le memorie dell’ex moglie Jane, contenute nel volume Travelling to infinity: my life with Stephen, rielaborate a quattro mani dalla stessa Jane assieme allo sceneggiatore Anthony McCarten. La parabola narrativa segue passo passo il rapporto della coppia: il colpo di fulmine, il matrimonio, le gioie della vita coniugale, le discussioni accese, la separazione. Stephen è una mente geniale, che vive l’università secondo ritmi e tempi con cui nessun altro studente può competere, mentre Jane è una studentessa di poesia e letteratura spagnola, apparentemente fragile: potevano trovarsi due menti più diverse? Tra i due scatta la scintilla e nonostante le opposte visioni sulla vita, iniziano a frequentarsi fino a quando un incidente mette tutto in pericolo: a Stephen vengono prognosticati due anni di vita! Questa scena sancisce il primo turning point: sarà Jane da qui in avanti a condurre la relazione, a spingere sull’acceleratore dell’automobile e della vita e a rallentare quando necessario.
Le scoperte di Hawking non servono alla dinamica del film e, per questo, non sono approfondite e non si uscirà dalla sala con nozioni di fisica, né si saprà molto di più sulla radiazione che prende da lui il nome, sui buchi neri o sull’origine dell’universo, quella teoria che dovrebbe spiegare il tutto (da cui il titolo del film): a occupare la scena sono i singoli momenti che costruiscono prima e spostano poi l’amore tra Jane e Stephen verso altre due persone, che entreranno nel loro mondo in maniera permanente modificando l’equilibrio di una trama che può rientrare sotto l’etichetta di una grande e intensa storia d’amore.
Ci sono film in cui l’elemento malattia è impiegato per scavare logiche sottili, che regolano le scelte di chi vive la malattia e di chi sta accanto. Come Amour di Michael Haneke (2012), dove la protagonista affetta dall’Alzheimer perde progressivamente contatto con il marito: Haneke entra in questa perdita, nel vuoto della memoria e del rapporto, sonda il terreno centimetro per centimetro e lascia sul campo molti interrogativi. Volenti o nolenti, la “malattia” è un fatto reale o finzionale con una grande portata emotiva; in questo senso è anche un elemento facile, perchè di sicuro impatto, ma proprio per questo difficile da usare. In La teoria del tutto l’espediente malattia è usato con una certa banalità, con toni caldi e rassicuranti, con una musica d’atmosfera sicuramente bella ma molto ingombrante. Supposto che un film deve avere la capacità di aprire discussioni e percorsi di riflessione, ci si trova un po’ spiazzati di fronte a questo, con la sensazione che manchi qualcosa.
Non mancano di certo i riconoscimenti internazionali: è stato uno dei film più attesi di questo inizio stagione e se ne sentirà parlare ancora per un po’, almeno fino alla notte del 22 febbraio, quando saranno annunciati gli Oscar per cui The theory of everything ha ricevuto ben 5 nomination ufficiali (miglior film, miglior attore protagonista, miglior attrice protagonista, miglior colonna sonora e miglior adattamento). Il giovane interprete di Stephen Hawking, Eddie Redmayne, che ha già ricevuto il Golden Globe, ha dato una prova memorabile, ma forse non sufficiente per poter dire che il film sarà indenne al passare degli anni.
Elena Cappelletti
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